Archive pour décembre, 2008

PREGHIERA ALL’APOSTOLO PAOLO

PREGHIERA ALL’APOSTOLO PAOLO

di Angelo Comastri

Arciprete della Basilica di San Pietro

 

« Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? »

Queste parole di Gesù pecorrono

tutte le strade del mondo

e interpellano anche la nostra coscienza.« Perché mi perseguiti? »:

queste parole trasformarono Saulo in Paolo.

Paolo apostolo di Gesù,

tu eri violento e sei diventato mite

fino a scrivere un inno alla carità;

tu eri orgoglioso e sei diventato umile

fino a difendere un povero schiavo;

tu eri persecutore

e sei diventato perseguitato

per amore di Gesù fino al martirio.

Paolo, apostolo senza paura,

prega perché si aprano i nostri occhi

per vedere il vero tesoro della vita;

prega perché si spezzi in noi il muro

del compromesso e e della mediocrità

per diventare missionari di Gesù

con tutti, dovunque, sempre,

con la vita e con la parola. Amen.

(copiato da una cartolina delle edizioni San Paolo)

GIANFRANCO RAVASI – (sul Natale, sul simbolo apostolico e su Gal 4,4)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ravasi12.htm

GIANFRANCO RAVASI – (sul Natale, sul simbolo apostolico e su  Gal 4,4)
da »Avvenire », 16/12/’07

Il « Simbolo apostolico » professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine» e il « Credo Niceno Costantinopolitano » che ogni domenica proclamiamo nella liturgia ripete: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». I ventun versetti del « Vangelo di Luca » (2,1-21), che descrivono gli eventi che accompagnano la nascita del Cristo erano già stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione simile a un piccolo Credo: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4).
Prima di iniziare il nostro viaggio spirituale all’interno di questi versetti e dei loro temi principali, fermiamoci davanti all’icona della « Madonna del Natale » per abbozzarne e contemplarne i tratti essenziali attraverso alcuni versi della « XIX Ode di Salomone », appartenente a quei quaranta inni che furono ritrovati nel 1905 in un manoscritto siriaco e che costituiscono un documento importante dell’antica poesia cristiana. Anche nel testo di Luca il racconto della nascita di Gesù si allarga lungo due orizzonti « antitetici »: alla povertà estrema della cornice terrestre si associa un’eco cosmica e celeste. Mentre nella narrazione parallela della nascita del Battista la circoncisione era il dato fondamentale così da occupare ben otto versetti, per Gesù la circoncisione occupa un solo versetto contro i venti della nascita. Il Battista conduce al Cristo l’alleanza della circoncisione, il Cristo con la circoncisione accoglie il popolo della prima alleanza divenendone membro, compimento e salvezza. Il Natale è il centro anche del grandioso inno di apertura del « Vangelo di Giovanni »: «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
Il verbo greco che allude alla tenda dell’arca dell’alleanza, « skenoun », contiene le tre consonanti radicali della parola ebraica « Shekinah » (« s-k-n »), il termine con cui il giudaismo definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. Il Natale è cantato anche dalla « Lettera agli Ebrei », una potente e monumentale omelia « neotestamentaria », che applica al Cristo il « Salmo 8″, un inno notturno destinato a celebrare l’uomo e la sua grandezza e ora applicato al Cristo, uomo perfetto che entra nella storia per redimerla, strappandola al male.
Il testo di Luca è poi alla base della creatività popolare che sui sobri versetti evangelici ha ricamato arabeschi spesso fantasiosi. Il riferimento scontato è ai vangeli apocrifi, in particolare al « Protovangelo di Giacomo » del III secolo, ma spunti affascinanti si possono cogliere in centinaia di testi cristiani antichi, come in questa dichiarazione messa in bocca a Gesù da parte di uno scritto « gnostico » egizio, l’ »Interpretazione della gnosi »: «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto donde siete caduti… Io vi porterò sulle mie spalle» (XI, 10,27-34). Solo per evocare la fertilità poetica e spirituale di queste tradizioni popolari, pensiamo che cosa significhi il soggetto del Natale di Cristo nella storia dell’arte, che cosa rappresenti il presepio, quante siano le tipologie orientali e occidentali della Madre Maria col Bambino Gesù! Pensiamo all’accumulo dei particolari attorno a quella scena così essenziale. Ad esempio, il bue e l’asino sono introdotti solo da un apocrifo, lo « Pseudo-Matteo », redatto nel VI-VII secolo; ma già nel IV secolo l’arte li aveva presentati nel sarcofago romano del « Museo Pio » e in quello di « Stilicone » della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
Origene nel III secolo rimandava a un passo di Isaia (1,3: «Il bue conosce il padrone e l’asino la greppia del suo padrone»), mentre i Padri della Chiesa trovavano nei due animali un curioso simbolismo che San Gregorio di Nazianzo così definisce: «Tra il giovane toro (bue) che è attaccato alla Legge giudaica e l’asino che è gravato dal peccato dell’idolatria pagana giace il Figlio di Dio che libera da entrambi i pesi». Con Francesco e il suo presepio di Greccio i due animali diventano, invece, espressione dell’adorazione e della gioia cosmica per la nascita del Salvatore di ogni cosa. Un anonimo francescano del ’300, autore delle « Meditazioni sulla vita di Cristo » (« Città Nuova », Roma, 1982), immagina allora «il bue e l’asino piegarsi sulle zampe anteriori, sporgere i musi sulla mangiatoia soffiando con le narici, quasi fossero dotati di ragione e capissero che il bambino, così miseramente riparato in quella freddissima stagione, aveva bisogno di essere riscaldato». Secondo il « Physiologus », poi, nella notte del solstizio d’inverno, gli animali selvatici mandano due volte un forte raglio: sarebbe la reazione del diavolo che nella notte santa s’indigna perché col Bambino Gesù sorge il «nuovo giorno» e viene infranta la «potenza delle tenebre».
Il Natale ha poi alimentato la meditazione dei Padri della Chiesa (pensiamo ai « Sermoni del Natale » di Leone Magno), ha generato musiche colte e popolari (« Stille Nacht »; « Tu scendi dalle stelle »; « Adeste, fideles »…), ha trionfato nella liturgia, e nell’Occidente cristiano è divenuto la festa più sentita.
 
Dopo questa lunga premessa, torniamo al testo lucano per far affiorare lo spirito genuino del Natale del Figlio di Maria, spogliandolo dei rivestimenti fantasiosi e retorici. Cerchiamo anche noi il bimbo di Maria, non tanto per esprimergli tenerezza ma per conoscere il suo mistero. La maternità di Maria ha due coordinate esterne ben dichiarate dall’evangelista.
La prima coordinata è quella « spaziale », legata a Betlemme, «la città di Davide», come dice Luca, nonostante che nell’Antico Testamento questo sia il titolo ufficiale di Gerusalemme (2Sam 5,7.9). Gesù giunge a noi dallo spazio umano, fisico e spirituale della « promessa davidica ». È per questo che in alcune testimonianze dell’arte cristiana non si oppone solo la Gerusalemme terrestre a quella celeste, ma anche la Betlemme terrestre a quella del cielo. Da Betlemme l’umanità viene assunta in Dio. Nello spazio di Betlemme la nostra attenzione si fissa su due punti « topografici ». Il primo è quello del parto di Maria, una mangiatoia per animali probabilmente scavata nella roccia, perché il « katalyma » (in greco «albergo, casa, alloggio, stanza») non aveva spazio per il Signore dello spazio. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale.
Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).
Attorno a quella grotta, a quel punto dello spazio di Betlemme si erge ora la solenne « Basilica Giustinianea », iniziata però da Elena nel IV secolo. Una basilica ancor oggi intatta perché non mai distrutta, diversamente dalle altre chiese di Terra Santa: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata anche a Maria, che pure essi veneravano, e i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano visto la sfilata dei Magi coi loro costumi persiani.
L’altro punto topografico che vogliamo evocare è il cosiddetto «campo dei pastori», la campagna circostante a Betlemme percorsa da « seminomadi » pastori. Due residenze provvisorie, due località misere, due segni di quotidiana miseria diventano il centro di una speranza cosmica. È famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine « evangelo » per la nascita di Augusto: «La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della « buona novella » (« evangelo ») per il mondo». Un evangelo, questo, proclamato in palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo; un evangelo, quello della nascita di Gesù, proclamato in una mangiatoia e tra nomadi: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi, vi è nato un salvatore!» (vv. 10-11). Il primo evangelo ben presto genererà cattive notizie di oppressioni, di tasse, di guerre, di schiavitù: l’evangelo di Cristo è «liberazione per i prigionieri, lieto messaggio per i poveri, vista per i ciechi, libertà per gli oppressi» (Lc 4,18).
C’è una seconda coordinata da considerare, quella « temporale ». Essa è scandita dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisata da Luca con l’indicazione del famoso « primo censimento », ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una « prima » operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: «La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato… Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Se uno nega la sua nascita, venga smentito dalla croce» (« Sermone su Nostro Signore », 2). Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana. Sarà proprio questo bambino povero a segnare nella storia i secoli in un « prima » e in un « dopo » di lui. La liturgia bizantina canta per il Natale del Signore questa bella antifona…

« L’autore della vita è nato dalla nostra carne dalla madre dei viventi. Un bambino da lei è nato ed è il Figlio del Padre. Con le sue fasce scioglie i legami dei nostri peccati e asciuga per sempre le lacrime delle nostre madri. Danza e sussulta, creazione del Signore, poiché il tuo Salvatore è nato…
Contemplo un mistero strano e inatteso: la grotta è il cielo, la Vergine è il trono dei cherubini, la mangiatoia è il luogo dove riposa l’incomprensibile, il Cristo Dio.
Cantiamolo ed esaltiamolo! ».

Attorno al figlio di Maria si raccoglie una serie di spettatori diversi ma tutti convergenti verso quella scena e quella figura.
I primi sono « i pastori » ai quali è riservata una vera e propria annunciazione come a Maria, Giuseppe e Zaccaria: apparizione dell’angelo, l’invito a «non temere», l’annunzio di una nascita straordinaria, il segno della mangiatoia (vv. 9-12). Eppure i pastori erano considerati impuri dal giudaismo ufficiale di allora e quindi erano esclusi dalla vita religiosa pubblica. Essi cercano e trovano, come è indicato dai molti verbi di movimento che percorrono tutto il racconto: «Andiamo… vediamo… conosciamo… andarono senza indugio… trovarono… videro… riferirono… tornarono…». Una costellazione di verbi di ricerca, di rivelazione, di adorazione che rende i pastori primi missionari del Cristo, suoi « evangelizzatori ».
C’è poi un’altra classe di persone, «tutti quelli che udirono», cioè « la folla ». Essi «si stupiscono», restano solo colpiti, la reazione non ha seguito: «Essi ascoltano la parola, la ricevono con gioia, ma non hanno radici» (Lc 8,13).
Ci sono poi « gli angeli » col loro annunzio a cui fa seguito un inno. L’annunzio, presente nel v. 11, sviluppa cinque dati teologici significativi. Il testo suona così: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore». Innanzitutto l’«oggi», il presente costante della salvezza, vissuto nella liturgia, espressione della pienezza dei tempi. C’è poi la nascita, che è indizio di un inizio e quindi di una storia concreta; il terzo elemento è lo spazio, la «città di Davide». L’«oggi» eterno di Dio penetra nelle dimensioni « spazio-temporali » dell’uomo per fecondarle e trasfigurarle. Il quarto articolo di fede del Credo angelico è l’affermazione che Cristo è Salvatore (vedi Lc 1,69; Gv 4,42). Il quinto elemento è posto al vertice: Cristo è il « Kyrios », il Signore, il titolo che definiva il Dio dell’Antico Testamento. Come si vede, si proclama già la fede pasquale perché Gesù apparirà veramente come Signore nella sua risurrezione. È interessante notare che l’arte orientale ha reso questo aspetto pasquale del Natale in modo curioso: l’icona russa della « Natività », appartenente alla « Scuola di Novgorod » (XV secolo) rappresenta Gesù bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro.
Accanto all’annunzio gli angeli pongono un inno, un altro dei cantici del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca. È un « carme » che risuonerà nelle nostre liturgie festive: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (v. 14). La gloria è l’adorazione di Dio; Dio si manifesta agli uomini attraverso il suo amore, la sua « eudokía », la sua «buona volontà», il desiderio ardente del bene della sua creatura. Da questo atto di bontà nasce la «pace», il « shalôm » biblico che abbraccia prosperità, gioia, serenità, tranquillità, pienezza di vita. Il bambino di Maria, «principe della pace» (Is 9,5), «è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, per creare dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce. Egli è venuto, perciò, ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17).
L’ultimo personaggio che è presente alla scena del Natale è la figura più importante, è lei, la « Theotókos », la Madre di Dio, come proclamerà il « Concilio di Efeso ». Maria «serbava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (v. 19): essa «ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono» (Lc 8,15). Maria conserva e, come dice l’originale greco, «mette insieme», cioè dà un senso a tutto ciò che sta accadendo, scoprendo il piano divino sotteso agli eventi. È la sapiente per eccellenza, che penetra nei segreti della salvezza che Dio ci sta offrendo e che si attuano anche per suo tramite.
 
Concludiamo la nostra descrizione, associandoci al cantore siro Romano il Melode, nato in Siria attorno al 490, convertitosi al cristianesimo e vissuto come diacono tutta la vita presso il santuario mariano del quartiere «di Ciro» a Costantinopoli, ove fu sepolto dopo il 555 e prima del 562. Romano, secondo la tradizione, avrebbe composto un migliaio di inni; i codici ce ne hanno trasmesso solo 85 e non tutti autentici. Eppure anche questi bastano a rivelarci la statura poetica di questo artefice dell’innografia bizantina, venerato come santo dalle Chiese d’Oriente che lo ricordano il 1° ottobre. I suoi inni, appartenenti al genere detto « kontakion », sono in realtà omelie in poesia. Al Natale sono dedicati tre inni. Nel primo, Romano mette sulle labbra di Maria questo dolcissimo « monologo-dialogo » col Figlio…

« Dimmi, o Figlio, come sei stato seminato in me e come sei nato!
Ti vedo, o mie viscere, e stupisco.
Il mio seno è gonfio di latte e non sono sposa. Ti vedo avvolto nelle fasce e scorgo ancora intatto il sigillo della mia verginità.
Sei tu, infatti, che l’hai serbato tale quando ti sei degnato di nascere, o nuovo Bambino, Dio anteriore ai secoli!
O Re eccelso, che cosa c’è di comune tra te e le nostre miserie?
O creatore del cielo, perché vieni tra noi, uomini della terra?
Ti sei lasciato incantare da una grotta e un presepio ti è caro? (I, 2-3).
Lo Spirito stese le sue ali sul grembo della Vergine ed ella concepì e partorì e divenne madre-vergine con molta sollecitudine.
Rimase incinta e partorì senza dolore un figlio… Lo generò in esempio, lo possedette in grande potenza, lo amò in salvezza, lo custodì nella soavità, lo mostrò nella grandezza.
Alleluia! ».

DOMENICA FRA L’OTTAVA DI NATALE – SANTA FAMIGLIA DI GESU’

DOMENICA FRA L'OTTAVA DI NATALE - SANTA FAMIGLIA DI GESU' dans BIBLE SERVICE (sito francese)

http://santiebeati.it/

DOMENICA FRA L’OTTAVA DI NATALE
SANTA FAMIGLIA DI GESU’
MARIA E GIUSEPPE
Anno B – Festa

CADE OGGI ANCHE LA FESTA DEI SANTI INNOCENTI MARTIRI, METTO QUALCOSA SEPARATAMENTE

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  Eb 11, 8.11-12.17-19
La fede di Abramo, di Sara e di Isacco.
 
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare. Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

COMMENTO AD EBREI DAL SITO BIBLE SERVICE:

http://www.bible-service.net/site/376.html

Hébreux  11, 8.11-12.17-19
Le chapitre 11 de l’épître aux Hébreux est une relecture de l’histoire d’Israël à partir du thème de la foi. Dans un genre littéraire très attesté à l’époque, l’auteur montre comment les ancêtres du peuple se sont laissés entièrement guider par la foi au Dieu vivant. La foi d’Abraham a déjà été mise en valeur dans la première lecture. Fidèle aux récits de la Genèse, l’auteur voit toute la vie d’Abraham informée par la foi, depuis l’appel jusqu’à l’épreuve du sacrifice. Son épouse Sara vit de la même foi. Comme Paul l’avait dit en Romains 4, cette foi est déjà chrétienne, puisqu’elle envisage même la résurrection.

Ebrei 11, 8.11-12.17-19
Il capitolo 11 della lettera agli Ebrei è una rilettura della storia di Israele a partire del tema della fede. In un genere letterario molto attestato a l’epoca, l’autore mostra come i precursori del popolo si sono lasciati interamente guidare dalla fede al Dio vivente. La fede di Abramo è stata già messa in rilievo nella prima lettura. Fedele al racconto della Genesi l’autore vede tutte le vie di Abramo comprese attraverso la fede, poi, anche nella chiamata alla prova del sacrificio. La sua sposa Sara vive della medesima fede. Come Paolo dice in Rm 4, questa fede è già cristiana, poiché essa discerne (già) anche la resurrezione.

LETTURA DAL SITO EAQ:

 http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&ordo=&localTime=12/28/2008#

Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), fondatrice delle Suore Missionarie della Carità
A Simple Path


« Partì con loro e tornò a Nàzaret »
Potete pregare la Santa Famiglia per la vostra famiglia:

Padre nostro che sei nei cieli, ci hai dato un modello di vita
nella santa Famiglia di Nàzaret.
Aiutaci, Padre benevolissimo a fare della nostra famiglia
un nuovo Nàzaret dove regnino la gioia e la pace.
Sia essa profondamente contemplativa,
intensamente eucaristica e vibrante della gioia.
Aiutaci a restare insieme attraverso felicità e fatica
grazie alla preghiera familiale.
Insegnaci a riconoscere Gesù in ciascun membro della nostra famiglia, particolarmente quando soffre e rimane ferito.
Il cuore eucaristico di Gesù
renda i nostri cuori miti e umili come il suo (Mt 11,29).
Aiutaci a compiere santamente la nostra vocazione familiale.
Possiamo amarci gli uni gli altri
come Dio ama ognuno di noi, ogni giorno maggiormente,
e perdonarci a vicenda le nostre colpe,
come tu perdoni i nostri peccati.
Aiutaci, Padre benevolissimo
ad accogliere quanto ci doni
e a dare quanto ci prendi
con un grande sorriso.
Cuore immacolato di Maria, motivo della nostra gioia,
prega per noi.
Santi angeli custodi
siate sempre con noi,
guidateci, custoditeci.
Amen.

PRIMI VESPRI

Lettura Breve   2 Cor 8, 9
Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera agli Efesini di san Paolo, apostolo 5, 21 – 6, 4

La vita cristiana nella famiglia
Fratelli: siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.
Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola (Gn 2, 24). Questo mistero è grande; lo dico in riferimento al Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito. Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto, Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra (Es 20, 12; Dt 5, 10). E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore.

Responsorio    Ef 6, 1-2; Lc 2, 51
R. Figli, obbedite nel Signore ai vostri genitori; * onorate il padre e la madre, perché questo è giusto.
V. Gesù tornò a Nazareth con Maria e Giuseppe, e stava loro sottomesso.
R. Onorate il padre e la madre, perché questo è giusto.
 
Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa
(Discorso tenuto a Nazareth, 5 gennaio 1964)

in questa lettura non ci sono citazioni di, o su, San Paolo, ma è veramente bella, è irrinunciabile per me;

L’esempio di Nazareth
La casa di Nazareth è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare. Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo. Qui scopriamo il bisogno di osservare il quadro del suo soggiorno in mezzo a noi: cioè i luoghi, i tempi, i costumi, il linguaggio, i sacri riti, tutto insomma ciò di cui Gesù si servì per manifestarsi al mondo. Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola, certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo. Oh! come volentieri vorremmo ritornare fanciulli e metterci a questa umile e sublime scuola di Nazareth! Quanto ardentemente desidereremmo di ricominciare, vicino a Maria, ad apprendere la vera scienza della vita e la superiore sapienza delle verità divine! Ma noi non siamo che di passaggio e ci è necessario deporre il desiderio di continuare a conoscere, in questa casa, la mai compiuta formazione all’intelligenza del Vangelo. Tuttavia non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente, alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazareth. In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazareth, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto. Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazareth ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci faccia vedere com’è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale. Infine impariamo la lezione del lavoro. Oh! dimora di Nazareth, casa del Figlio del falegname! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo ma redentrice della fatica umana; qui nobilitare la dignità del lavoro in modo che sia sentita da tutti; ricordare sotto questo tetto che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine; qui infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le giuste cause che li riguardano, cioè Cristo nostro Signore.

Responsorio    2 Cor 13, 11; Ef 5, 19; Col 3, 23
R. State lieti, cercate ciò che è perfetto, incoraggiatevi al bene, andate d’accordo, vivete in pace, * cantate e inneggiate a Dio con tutto il cuore.
V. Qualunque sia il vostro lavoro, fatelo di buon animo, per il Signore, e non per gli uomini.
R. Cantate e inneggiate a Dio con tutto il cuore.

VESPRI

Lettura breve  Cfr. Fil 2, 6-7
Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; egli è apparso in forma umana.

Massacre of the innocents

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Massacre of the innocents, The Artist: Bening, Simon, Follower of Date: C. 1500-25 Technique: Miniature on vellum Location: Museum Meermanno Westreenianum, The Hague Notes: From a Book of Hours (use of Rome) of Southern Netherlands (manuscript « Den Haag, MMW, 10 E 3″). Hours of the Virgin: Vespers.

http://www.artbible.net/3JC/-Mat-02,16-Massacre%20of%20the_%20des%20innocents/index2.html

Publié dans:immagini sacre |on 27 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

Santi Innocenti Martiri – 28 dicembre – sec. I (festa anche dei)

dal sito:

http://santiebeati.it/dettaglio/22150

Santi Innocenti Martiri

28 dicembre - sec. I

Gli innocenti che rendono testimonianza a Cristo non con le Parole, ma con il sangue, ci ricordano che il martirio è dono gratuito del Signore. Le vittime immolate dalla ferocia di Erode appartengono, insieme a santo Stefano e all’evangelista Giovanni, al corteo del re messiniaco e ricordano l’eminente dignità dei bambini nella Chiesa. (Mess. Rom.)

Patronato: Bambini

Emblema: Palma

Martirologio Romano: Festa dei santi Innocenti martiri, i bambini che a Betlemme di Giuda furono uccisi dall’empio re Erode, perché insieme ad essi morisse il bambino Gesù che i Magi avevano adorato, onorati come martiri fin dai primi secoli e primizia di tutti coloro che avrebbero versato il loro sangue per Dio e per l’Agnello. 
La Chiesa onora come martiri questo coro di fanciulli (« infantes » o « innocentes »), vittime ignare del sospettoso e sanguinario re Erode, strappati dalle braccia materne in tenerissima età per scrivere col loro sangue la prima pagina dell’albo d’oro dei martiri cristiani e meritare la gloria eterna secondo la promessa di Gesù:  » Colui che avrà perduto la sua vita per causa mia la ritroverà ». Per essi la liturgia ripete oggi le parole del poeta Prudenzio: « Salute, o fiori dei martiri, che sulle soglie del mattino siete stati diverti dal persecutore di Gesù, come un turbine furioso tronca le rose appena sbocciate. Voi foste le prime vittime, il tenero gregge immolato, e sullo stesso altare avete ricevuto la palma e la corona ». L’episodio è narrato soltanto dall’evangelista Matteo, che si indirizzava principalmente a lettori ebrei e pertanto intendeva dimostrare la messianicità di Gesù, nel quale si erano avverate le antiche profezie: « Allora Erode, vedendosi deluso dai magi, s’irritò grandemente e mandò ad uccidere tutti i bambini che erano in Betlem e in tutti i suoi dintorni, dai due anni in giù, secondo il tempo che aveva rilevato dai magi. Allora si adempì ciò che era stato annunciato dal profeta Geremia, quando disse: Un grido in Rama si udì, pianto e grave lamento: Rachele piange i suoi figli, né ha voluto essere consolata, perché non sono più ».
L’origine di questa festa è molto antica. Compare già nel calendario cartaginese del IV secolo e cent’anni più tardi a Roma nel Sacramentario Leoniano. Oggi, con la nuova riforma liturgica, la celebrazione ha un carattere gioioso e non più di lutto com’era agli inizi, e ciò in sintonia con le simpatiche consuetudini medioevali che celebravano in questa ricorrenza la festa dei « pueri » di coro e di servizio all’altare. Tra le curiose manifestazioni ricordiamo quella di far scendere i canonici dai loro stalli al canto del versetto « Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles ».
Da questo momento i fanciulli, rivestiti delle insegne dei canonici, dirigevano tutto l’uffìcio del giorno. La nuova liturgia, pur non volendo accentuare il carattere folcloristico che questo giorno ha avuto nel corso della storia, ha voluto mantenere questa celebrazione, elevata al grado di festa da S. Pio V, vicinissima alla festività natalizia, collocando le innocenti vittime tra i « comites Christi », per circondare la culla di Gesù Bambino dello stuolo grazioso di piccoli fanciulli, rivestiti delle candide vesti dell’innocenza, piccola avanguardia dell’esercito di martiri che testimonieranno col sangue la loro appartenenza a Cristo.

Autore: Piero Bargellini 

Santo Stefano protomartire

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14_enl_Lapidation d Etienne4 The Hague medieval illuminated mss Mermaino Suffrages The martyrdom of St. Stephen: he is stoned to death Master of Jean Rolin II (illuminator) Fol. 9r: min.

http://www.artbible.net/2NT/Act0701_Stephen_Stoning/index.htm

Publié dans:immagini sacre |on 26 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto : Santo Stefano (mercoledì 10 gennaio 2007)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070110_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 10 gennaio 2007  

Stefano il Protomartire

Cari fratelli e sorelle,

dopo il tempo delle feste ritorniamo alle nostre catechesi. Avevo meditato con voi le figure dei dodici Apostoli e di san Paolo. Poi abbiamo cominciato a riflettere sulle altre figure della Chiesa nascente e così oggi vogliamo soffermarci sulla persona di santo Stefano, festeggiato dalla Chiesa il giorno dopo Natale. Santo Stefano è il più rappresentativo di un gruppo di sette compagni. La tradizione vede in questo gruppo il germe del futuro ministero dei ‘diaconi’, anche se bisogna rilevare che questa denominazione è assente nel Libro degli Atti. L’importanza di Stefano risulta in ogni caso dal fatto che Luca, in questo suo importante libro, gli dedica due interi capitoli.

Il racconto lucano parte dalla constatazione di una suddivisione invalsa all’interno della primitiva Chiesa di Gerusalemme: questa era, sì, interamente composta da cristiani di origine ebraica, ma di questi alcuni erano originari della terra d’Israele ed erano detti «ebrei», mentre altri di fede ebraica veterotestamentaria provenivano dalla diaspora di lingua greca ed erano detti «ellenisti». Ecco il problema che si stava profilando: i più bisognosi tra gli ellenisti, specialmente le vedove sprovviste di ogni appoggio sociale, correvano il rischio di essere trascurati nell’assistenza per il sostentamento quotidiano. Per ovviare a questa difficoltà gli Apostoli, riservando a se stessi la preghiera e il ministero della Parola come loro centrale compito decisero di incaricare «sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza» perché espletassero l’incarico dell’assistenza (At 6, 2-4), vale a dire del servizio sociale caritativo. A questo scopo, come scrive Luca, su invito degli Apostoli i discepoli elessero sette uomini. Ne abbiamo anche i nomi. Essi sono: «Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola. Li presentarono agli Apostoli, i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,5-6).

Il gesto dell’imposizione delle mani può avere vari significati. Nell’Antico Testamento il gesto ha soprattutto il significato di trasmettere un incarico importante, come fece Mosè con Giosuè (cfr Nm 27,18-23), designando così il suo successore. In questa linea anche la Chiesa di Antiochia utilizzerà questo gesto per inviare Paolo e Barnaba in missione ai popoli del mondo (cfr At 13,3). Ad una analoga imposizione delle mani su Timoteo, per trasmettergli un incarico ufficiale, fanno riferimento le due Lettere paoline a lui indirizzate (cfr 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6). Che si trattasse di un’azione importante, da compiere dopo discernimento, si desume da quanto si legge nella Prima Lettera a Timoteo: «Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui» (5,22). Quindi vediamo che il gesto dell’imposizione delle mani si sviluppa nella linea di un segno sacramentale. Nel caso di Stefano e compagni si tratta certamente della trasmissione ufficiale, da parte degli Apostoli, di un incarico e insieme dell’implorazione di una grazia per esercitarlo.

La cosa più importante da notare è che, oltre ai servizi caritativi, Stefano svolge pure un compito di evangelizzazione nei confronti dei connazionali, dei cosiddetti “ellenisti”, Luca infatti insiste sul fatto che egli, «pieno di grazia e di fortezza» (At 6,8), presenta nel nome di Gesù una nuova interpretazione di Mosè e della stessa Legge di Dio, rilegge l’Antico Testamento nella luce dell’annuncio della morte e della risurrezione di Gesù. Questa rilettura dell’Antico Testamento, rilettura cristologica, provoca le reazioni dei Giudei che percepiscono le sue parole come una bestemmia (cfr At 6,11-14). Per questa ragione egli viene condannato alla lapidazione. E san Luca ci trasmette l’ultimo discorso del santo, una sintesi della sua predicazione. Come Gesù aveva mostrato ai discepoli di Emmaus che tutto l’Antico Testamento parla di lui, della sua croce e della sua risurrezione, così santo Stefano, seguendo l’insegnamento di Gesù, legge tutto l’Antico Testamento in chiave cristologica. Dimostra che il mistero della Croce sta al centro della storia della salvezza raccontata nell’Antico Testamento, mostra che realmente Gesù, il crocifisso e il risorto, è il punto di arrivo di tutta questa storia. E dimostra quindi anche che il culto del tempio è finito e che Gesù, il risorto, è il nuovo e vero “tempio”. Proprio questo “no” al tempio e al suo culto provoca la condanna di santo Stefano, il quale, in questo momento — ci dice san Luca— fissando gli occhi al cielo vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra. E vedendo il cielo, Dio e Gesù, santo Stefano disse: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio» (At 7,56). Segue il suo martirio, che di fatto è modellato sulla passione di Gesù stesso, in quanto egli consegna al “Signore Gesù” il proprio spirito e prega perché il peccato dei suoi uccisori non sia loro imputato (cfr At 7,59-60).

Il luogo del martirio di Stefano a Gerusalemme è tradizionalmente collocato poco fuori della Porta di Damasco, a nord, dove ora sorge appunto la chiesa di Saint-Étienne accanto alla nota École Biblique dei Domenicani. L’uccisione di Stefano, primo martire di Cristo, fu seguita da una persecuzione locale contro i discepoli di Gesù (cfr At 8,1), la prima verificatasi nella storia della Chiesa. Essa costituì l’occasione concreta che spinse il gruppo dei cristiani giudeo-ellenisti a fuggire da Gerusalemme e a disperdersi. Cacciati da Gerusalemme, essi si trasformarono in missionari itineranti: «Quelli che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio» (At 8,4). La persecuzione e la conseguente dispersione diventano missione. Il Vangelo si propagò così nella Samaria, nella Fenicia e nella Siria fino alla grande città di Antiochia, dove secondo Luca esso fu annunciato per la prima volta anche ai pagani (cfr At 11,19-20) e dove pure risuonò per la prima volta il nome di «cristiani» (At 11,26).

In particolare, Luca annota che i lapidatori di Stefano «deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo» (At 7,58), lo stesso che da persecutore diventerà apostolo insigne del Vangelo. Ciò significa che il giovane Saulo doveva aver sentito la predicazione di Stefano, ed essere perciò a conoscenza dei contenuti principali. E san Paolo era probabilmente tra quelli che, seguendo e sentendo questo discorso, «fremevano in cuor loro e digrignavano i denti contro di lui» (At 7, 54). E a questo punto possiamo vedere le meraviglie della Provvidenza divina. Saulo, avversario accanito della visione di Stefano, dopo l’incontro col Cristo risorto sulla via di Damasco, riprende la lettura cristologica dell’Antico Testamento fatta dal Protomartire, l’approfondisce e la completa, e così diventa l’«Apostolo delle Genti». La Legge è adempiuta, così egli insegna, nella croce di Cristo. E la fede in Cristo, la comunione con l’amore di Cristo è il vero adempimento di tutta la Legge. Questo è il contenuto della predicazione di Paolo. Egli dimostra così che il Dio di Abramo diventa il Dio di tutti. E tutti i credenti in Gesù Cristo, come figli di Abramo, diventano partecipi delle promesse. Nella missione di san Paolo si compie la visione di Stefano.

La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l’impegno sociale della carità dall’annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme. Soprattutto, santo Stefano ci parla di Cristo, del Cristo crocifisso e risorto come centro della storia e della nostra vita. Possiamo comprendere che la Croce rimane sempre centrale nella vita della Chiesa e anche nella nostra vita personale. Nella storia della Chiesa non mancherà mai la passione, la persecuzione. E proprio la persecuzione diventa, secondo la celebre frase di Tertulliano, fonte di missione per i nuovi cristiani. Cito le sue parole: «Noi ci moltiplichiamo ogni volta che da voi siamo mietuti: è un seme il sangue dei cristiani» (Apologetico 50,13: Plures efficimur quoties metimur a vobis: semen est sanguis christianorum). Ma anche nella nostra vita la croce, che non mancherà mai, diventa benedizione. E accettando la croce, sapendo che essa diventa ed è benedizione, impariamo la gioia del cristiano anche nei momenti di difficoltà. Il valore della testimonianza è insostituibile, poiché ad essa conduce il Vangelo e di essa si nutre la Chiesa. Santo Stefano ci insegni a fare tesoro di queste lezioni, ci insegni ad amare la Croce, perché essa è la strada sulla quale Cristo arriva sempre di nuovo in mezzo a noi.

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