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II DOMENICA DI AVVENTO – 7 DICEMBRE 2008

II DOMENICA DI AVVENTO - 7 DICEMBRE 2008 dans LETTURE DI SAN PAOLO NELLA LITURGIA DEL GIORNO ♥♥♥ 10%20ENLUMINURE%20EVANGELIAIRE%20ABBESSE%20HILDA%20ANNO 

Enluminure Evangeliaire Abbesse Hilda Annonciation Darmstadt

http://www.artbible.net/3JC/-Luk-01,26_Annunciation_L%20Annonce%20a%20Marie/index.html 

II DOMENICA DI AVVENTO

7 DICEMBRE 2008

SANT’AMBROGIO

UFFICIO DELLE LETTURE
(oggi domenica si omette la memoria)

BIOGRAFIA MARTIROLOGIO E LETTURA

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santi/2008-12-07.html

Sant’ Ambrogio
Vescovo e Dottore
della Chiesa

BIOGRAFIA
 Nacque a Treveri nel 340. La sua famiglia è nobile e potente, il padre è prefetto o meglio governatore delle Gallie. Nobiltà ed intelligenza gli aprono le porte verso una carriera rapida e sicura. A trent’anni è già prefetto di Milano. Cristianamente sembra proceda con più lentezza, resta a lungo catecumeno e non brilla di fervore, ma la sua opera suscita ammirazione per l’integrità del suo animo. Alla morte del Vescovo di Milano Aussenzio nascono gravi disordini nella comunità dei fedeli riunita per eleggere il successore; Ambrogio deve intervenire con autorità, ma dalla massa inquieta della gente si leva la voce di un bimbo innocente che grida: “Ambrogio vescovo!” Battezzato e ordinato, nel nuovo ruolo, orienta i suoi studi verso la teologia, s’immerge nella lettura dei Padri della Chiesa senza dimenticare la formazione umanistica e giuridica precedentemente acquisita. Diventa un grande vescovo, pieno di amore per i suoi fedeli, pieno di amore particolarmente per i poveri; soleva ripetere: “Doni al povero? Non fai che restituirgli i suoi beni”. Si trova suo malgrado a dover combattere contro le ingerenze dell’imperatore e dopo il massacro di settemila persone a Tessalonica, senza indugio, lo scomunica. Ci ha lasciato scritti preziosi per la ricchezza dottrinale che contengono, per cui la chiesa giustamente l’annovera tra i grandi dottori. Muore il Sabato santo del 397.

MARTIROLOGIO
Sant’Ambrogio Vescovo, Confessore e Dottore della Chiesa, il quale si riposò nel Signore il 4 Aprile, ma si festeggia specialmente in questo giorno, in cui assunse il governo della Chiesa di Milano.

DAGLI SCRITTI…
Dalle “Lettere” di sant’Ambrogio, vescovo
Hai ricevuto il sacerdozio e, stando a poppa della Chiesa, tu guidi la nave sui flutti. Tieni saldo il timone della fede in modo che le violente tempeste di questo mondo non possano turbare il suo corso. Il mare è davvero grande, sconfinato; ma non aver paura, perché “E’ lui che l’ha fondata sui mari, e sui fiumi l’ha stabilita “(Sal 23, 2). Perciò non senza motivo, fra le tante correnti del mondo, la Chiesa resta immobile, costruita sulla pietra apostolica, e rimane sul suo fondamento incrollabile contro l’infuriare del mare in tempesta. E’ battuta dalle onde ma non è scossa e, sebbene di frequente gli elementi di questo mondo infrangendosi echeggino con grande fragore, essa ha tuttavia un porto sicurissimo di salvezza dove accogliere chi è affaticato. Se tuttavia essa è sbattuta dai flutti sul mare, pure sui fiumi corre, su quei fiumi soprattutto di cui è detto: I fiumi hanno innalzato la loro voce (cfr. Sal 92, 3). Vi sono infatti fiumi che sgorgano dal cuore di colui che è stato dissetato da Cristo e ha ricevuto lo Spirito di Dio. Questi fiumi, quando ridondano di grazia spirituale, alzano la loro voce. Vi è poi un fiume che si riversa sui suoi santi come un torrente. Chiunque abbia ricevuto dalla pienezza di questo fiume, come l’evangelista Giovanni, come Pietro e Paolo, alza la sua voce; e come gli apostoli hanno diffuso la voce della predicazione evangelica con festoso annunzio fino ai confini della terra, così anche questo fiume incomincia ad annunziare il Signore. Ricevilo dunque da Cristo, perché anche la tua voce si faccia sentire. Raccogli l’acqua di Cristo, quell’acqua che loda il Signore. Raccogli da più luoghi l’acqua che lasciano cadere le nubi dei profeti. Chi raccoglie acqua dalle montagne e la convoglia verso di sé, o attinge alle sorgenti, lui pure, come le nubi, la riversa su altri. Riempine dunque il fondo della tua anima, perché il tuo terreno sia innaffiato e irrigato da proprie sorgenti. Si riempie chi legge molto e penetra il senso di ciò che legge; e chi si è riempito può irrigare altri. La Scrittura dice: «Se le nubi sono piene di acqua, la rovesciano sopra la terra» (Qo 11, 3). I tuoi sermoni siano fluenti, puri, cristallini, si che il tuo insegnamento morale suoni dolce alle orecchie della gente e la grazia delle tue parole conquisti gli ascoltatori perché ti seguano docilmente dove tu li conduci. Il tuo dire sia pieno di sapienza. Anche Salomone afferma: Le labbra del sapiente sono le armi della Sapienza, e altrove: Le tue labbra siano ben aderenti all’idea: vale a dire, l’esposizione dei tuoi discorsi sia lucida, splenda chiaro il senso senza bisogno di spiegazioni aggiunte; il tuo discorso si sappia sostenere e difendere da se stesso e non esca da te parola vana o priva di senso. (Lett. 2, 1-2. 4-5; PL 16, 847-881).

PRIMI VESPRI

Lettura Breve   1 Ts 5, 23-24
Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo!

LODI

Lettura Breve   Rm 13, 11-12
E’ ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.

VESPRI

Lettura Breve   Fil 4, 4-5
Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!

I SETTIMANA DI AVVENTO – SABATO 6 DICEMBRE 2009

I SETTIMANA DI AVVENTO

SABATO 6 DICEMBRE 2009

SAN NICOLA (mf)

notizie di San Nicola su:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/294.html

UFFICIO DELLE LETTURE DELL’AVVENTO

Seconda Lettura
Dal trattato sui «Vantaggi della pazienza» di san Cipriano, vescovo e martire.   (Nn 13. 15; CSEL 3, 406-408)

Ciò che non vediamo, speriamo
«Chi persevererà sino alla fine sarà salvato» (Mt 10, 22; 24, 13): questo è comando salutare del nostro Signore e Maestro. E ancora: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31, 32). Bisogna perciò avere pazienza e perseverare, fratelli carissimi, perché, ammessi alla speranza della verità e della libertà, possiamo davvero arrivare alla verità e alla libertà. Il fatto stesso di essere cristiani è questione di fede e di speranza; ma perché la speranza e la fede possano arrivare a portare frutto, è necessaria la pazienza. Noi non miriamo infatti alla gloria presente, ma alla futura, secondo quanto ammonisce l’apostolo Paolo, quando dice: «Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8, 24-25). L’attesa e la pazienza sono necessarie perché portiamo a compimento quello che abbiamo cominciato a essere e raggiungiamo quello che speriamo e crediamo perché Dio ce lo rivela. In un altro passo lo stesso Apostolo, rivolgendosi ai giusti e a coloro con le buone opere e mettendo a frutto i doni ricevuti si procurano tesori per il cielo, insegna loro a essere pazienti dicendo: «Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede. E non stanchiamoci di fare il bene, e a suo tempo mieteremo» (Gal 6, 10. 9). Egli ammonisce tutti a non venir meno nell’operare per mancanza di pazienza; nessuno distolto e vinto dalle tentazioni, desista nel bel mezzo del cammino della lode e della gloria, e rovini così le azioni precedentemente compiute, perché non porta a compimento quelle incominciate. Infine l’Apostolo, parlando della carità, le unisce anche la sopportazione e la pazienza: «La carità», dice, «è paziente; è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, … non si adira, non tiene conto del male ricevuto. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13, 4-5). Egli ci fa vedere così che essa può perseverare tenacemente per il fatto che sa sopportare tutto. E altrove: «Sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4, 2). Con ciò ha voluto dimostrare che non si può conservare né l’unità né la pace se i fratelli non si sostengono vicendevolmente con la mutua sopportazione e non serbano il vincolo della concordia con l’aiuto della pazienza.

I SETTIMANA DI AVVENTO – VENERDÌ 5 DICEMBRE 2008

I SETTIMANA DI AVVENTO

VENERDÌ 5 DICEMBRE 2008

UFFICIO DELLE LETTURE

non ci sono citazioni a San Paolo, ma è bellissima, oggi l’ho sentita proprio per me

Seconda Lettura
Dal «Proslògion» di sant’Anselmo, vescovo
(Cap. 1: Opera omnia, ed. Schmitt, Seckau-Edimburgo 12938, 1, 97-100)
 
Il desiderio della contemplazione di Dio
Orsù, misero mortale, fuggi via per breve tempo dalle tue occupazioni, lascia per un pò i tuoi pensieri tumultuosi. Allontana in questo momento i gravi affanni e metti da parte le tue faticose attività. Attendi un poco a Dio e riposa in lui. Entra nell’intimo della tua anima, escludi tutto tranne Dio e quello che ti aiuta a cercarlo, e, richiusa la porta, cercalo. O mio cuore, dì ora con tutto te stesso, dì ora a Dio: Cerco il tuo volto. «Il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 26, 8). Orsù dunque, Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti. Signore, se tu non sei qui, dove cercherò te assente? Se poi sei dappertutto, perché mai non ti vedo presente? Ma tu certo abiti in una luce inaccessibile. E dov’è la luce inaccessibile, o come mi accosterò a essa? Chi mi condurrà, chi mi guiderà a essa si che in essa io possa vederti? Inoltre con quali segni, con quale volto ti cercherò? O Signore Dio mio, mai io ti vidi, non conosco il tuo volto.
Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule, che è così distante da te, ma che a te appartiene? Che cosa farà il tuo servo tormentato dall’amore per te e gettato lontano dal tuo volto? Anela a vederti e il tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarti e la tua abitazione è inaccessibile. Brama trovarti e non conosce la tua dimora. Si impegna a cercarti e non conosce il tuo volto.  Signore, tu sei il mio Dio, tu sei il mio Signore e io non ti ho mai visto. Tu mi hai creato e ricreato, mi hai donato tutti i miei beni, e io ancora non ti conosco. Io sono stato creato per vederti e ancora non ho fatto ciò per cui sono stato creato.
Ma tu, Signore, fino a quando ti dimenticherai di noi, fino a quando distoglierai da noi il tuo sguardo? Quando ci guarderai e ci esaudirai? Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai la tua faccia? Quando ti restituirai a noi? Guarda, Signore, esaudisci, illuminaci, mostrati a noi. Ridonati a noi perché ne abbiamo bene: senza di te stiamo tanto male. Abbi pietà delle nostre fatiche, dei nostri sforzi verso di te: non valiamo nulla senza te.
Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoli e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti.

SUFFICIT TIBI GRATIA MEA – TI BASTI LA MIA GRAZIA (2Cor 12,9)

SUFFICIT TIBI GRATIA MEA – TI BASTI LA MIA GRAZIA (2Cor 12,9)

Ieri ho scritto qualcosa su questo passo che mi sta risuonando dentro da molto tempo, ho trovato questa « bellissima » interpretazione di tutto il brano, ossia 2Cor 12, 7-10:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/lyonnet_meditare_con_paolo1.htm

STANISLAO LYONNET
Dieci meditazioni su San Paolo
PAIDEIA EDITRICE BRESCIA
Titolo originale dell’opera: lnitiatian à la Dactrine Spirituelle de Saint Paul Dix méditations sur le texte des Epitres
Traduzione italiana di Felice Montagnini – la edizione: dicembre 1965

VIRTUS IN INFIRMITATE PERFICITUR


(il titolo è il verso di 2Cor 12,9, scrivo tutta la frase per intero: « et dixit [Dominum] mihi: « 

Una delle espressioni che più profondamente e con più sicurezza consentono di penetrare nell’anima di San Paolo è quella che si usa chiamare la magna charta dell’apostolo: Virtus in infirmitate perficitur. Queste parole rappresentano il vertice dell’intera pericope di 2 Cor. 12,7-10, nella quale l’Apostolo passa in rassegna le difficoltà che gli si frappongono sulla strada del suo ministero.
7 Affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca. 8 Tre volte riguardo a questo pregai il Signore, perché lo allontanasse da me. 9 Ora, egli mi ha risposto: Ti basta la mia grazia, poiché la (mia) potenza si mostra appieno nella debolezza! Molto volentieri, adunque, mi glorierò nelle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo. 10 Per questo mi compiaccio delle (mie) debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo; perché quando son debole è ben allora che sono forte.
Qui di seguito dapprima esporremo brevemente il passo, e poi vedremo come le affermazioni di San Paolo ricevano luce da quanto sappiamo della sua vita, e come si inseriscono in una precisa linea di spiritualità biblica.
Siamo verso il 56-57. Paolo evoca in questa pagina alcune grazie mistiche, ricevute, dice, « or sono quattordici anni », dunque verso il 42-43, cioè poco prima dell’inizio del suo ministero apostolico (la sua prima missione ebbe inizio nel 45), grazie che probabilmente erano destinate, nel pensiero di Dio, a prepararlo alla sua missione ormai prossima. Ora, in connessione immediata con queste grazie, Paolo confida ai fedeli di Corinto di averne ricevuta un’altra non meno importante.
v.7 « Perciò, affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo (messaggero) di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca ».
Una spina (scolops, stimulus). A che cosa allude San Paolo? Partendo dalla versione della Volgata (datus est mihi stimulus carnis meae, col genitivo) (1), molti latini hanno pensato che Paolo intendesse parlare di tentazioni contro la castità. Ma questa interpretazione non ha alcuna possibilità di essere vera.
Molti moderni, invece, riferendosi a una possibile interpretazione del passo di Gal. 4,13: « Sapete che vi annunziai il Vangelo la prima volta in occasione di una mia malattia », vedono volentieri in questa « spina » una malattia, probabilmente cronica, forse febbri malariche.
Ma piuttosto che appoggiarsi a un tale testo, che non ha relazione certa con il nostro, è metodo migliore consultare prima il contesto immediato del passo. Esso infatti ci fornisce qualche preziosa indicazione.
San Paolo aggiunge nello stesso v. 7 che questa spina è un messaggero di Satana, cioè qualcosa che egli considera come un ostacolo al suo apostolato. Satana è difatti colui che « toglie la parola dal cuore degli uomini per impedire che, credendo, si salvino » (Lc. 8,12). Di lui parla anche 1Tess. 2,18: « Infatti per una o due volte abbiamo determinato di venire da voi, ma Satana ce l’ha impedito »; e ancora 2 Cor. 4,4: « Il dio di questo mondo ha accecato le menti degli infedeli, perché non rifulga ad essi lo splendore del vangelo della gloria di Cristo… ».
Nel v. 10 poi, Paolo sembra dare ogni chiarimento necessario, parlando, in termini generali, di « debolezze, oltraggi, necessità, persecuzioni, angustie » (non di malattia!). Sono tutte le sofferenze, le tribolazioni inerenti alla vita apostolica, delle quali ha parlato, per es., nel capitolo precedente (11,23-27): « Di più poi nei travagli, di più nelle prigioni; oltremodo di più sotto le battiture… in pericoli tra i falsi fratelli… ». Notiamo la menzione delle persecuzioni (2).
Il v. 8 contiene la preghiera di Paolo: « Tre volte, riguardo a questo, pregai il Signore, perché lo allontanasse da me ». Preghiera insistente, ripetuta « tre volte », come ha fatto il Signore al Getsemani, che mostra quanto Paolo ne soffrisse e come considerasse questa « spina » un grande ostacolo per il suo apostolato.
Al v. 9 abbiamo la risposta di Gesù: « Ora egli mi ha risposto: ‘Ti basta la mia grazia…’ ». Il Signore, implorato, sembra respingere la domanda dell’Apostolo. Invece in realtà la esaudisce. Paolo chiedeva che si allontanasse da lui questa spina, perché vedeva in essa un ostacolo al suo apostolato; orbene, ciò che Paolo credeva un ostacolo era in realtà la condizione più favorevole perché l’apostolato potesse aver il suo perfetto compimento. « Poiché – aggiunge il Signore – la mia potenza si mostra appieno nella debolezza »: la potenza di Dio non può dispiegare le sue virtualità, raggiungere tutti i suoi effetti, se non nella debolezza dell’uomo, dello strumento apostolico. È un paradosso evangelico, un aspetto della dottrina della fede. Perciò Paolo nel v. 9 continua: « Ben volentieri, adunque, io mi glorierò nella mia debolezza, affinché abiti in me la potenza di Cristo ».
Mi glorierò » kauchesomai, cioè « riporrò tutta la mia fiducia nella mia debolezza ».
« Affinché abiti in me la potenza di Cristo »; il verbo usato qui da Paolo, episkenoo, è lo stesso che indica la presenza della « gloria di Jahvé » sull’arca e, nel N. T., la presenza del Verbo di Dio sulla nostra terra: « E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi » (Io. 1,14). L’Apostolo, conscio della sua debolezza, diventa come un’incarnazione della potenza di Cristo!
Si capisce allora come Paolo possa così continuare ( v. 10): « Per questo io mi compiaccio delle mie debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo, perché quando son debole è ben allora che sono forte ».
Questo è il significato generale delle parole di San Paolo. Ma per poter penetrarne tutta la profondità non sarà inutile inserirle nella sua vita, la quale ne costituisce un commento straordinariamente significativo.
Di fatto, se Paolo ha formulato questa legge dell’apostolato con espressioni così vivide, così chiare, è forse perché Dio l’ha rivelato al suo Apostolo attraverso l’esperienza concreta. Prima di formularla Paolo l’ha vissuta. E non c’è da meravigliarsi che ne abbia fatto confidenza in una lettera ai Corinti, perché l’ha vissuta in modo particolare, ci sembra, proprio a Corinto, nella fondazione stessa di questa chiesa. Basta ricordare brevemente le circostanze di tale fondazione, quali sono riferite da San Luca in quel breviario della vita apostolica che sono gli Atti (16,11-18,11).
L’arrivo di Paolo a Corinto fu preceduto da una serie di scacchi dolorosi. Siamo durante il secondo viaggio missionario, verso il 50. Paolo, venendo dall’Asia Minore, ha per la prima volta messo piede sul suolo dell’Europa. Passato da Troade in Macedonia, ha predicato a Filippi, dove ha guarito una giovane schiava posseduta da uno « spirito pitone » che procurava molto guadagno ai suoi padroni, facendo l’indovina (16,16). Incarcerato insieme a Sila, suo compagno, e poi liberato e pregato di lasciare la città (16,40), giunse a Tessalonica, dove i Giudei avevano una sinagoga (17,1). Tutto comincia bene: non poche conversioni di Giudei e soprattutto di proseliti e di gentili…(17,4). Ma i Giudei, mossi da invidia, dice il testo, « presero alcuni pessimi uomini del volgo e provocarono un tumulto e misero a rumore la città… Non avendo trovato Paolo e Sila nella casa di Giasone, dove alloggiavano, trascinarono Giasone stesso ed alcuni fratelli davanti ai capi della città… » (v. 5).
Paolo deve approfittare della notte per fuggire di nuovo e cosi evitare ai fratelli altri incidenti.
A Berea (17,10) trovarono i Giudei « animati da sentimenti più nobili di quelli di Tessalonica… Molti fra essi credettero… ». Ma i Giudei di Tessalonica, inteso che ebbero il successo di Paolo, « si portarono pure colà e andavano agitando e sollevando le folle ». Nuova partenza (17,13 s.) e arrivo, questa volta, ad Atene (17,15 ss.). Qui Paolo supera se stesso nel celebre discorso dell’Areopago (17,22-32), nel quale mostra un’abilità umana eccezionale, potendo far leva anche su circostanze favorevoli. « Percorrendo la vostra città – egli può dire – ho trovato un altare con questa iscrizione: A un dio ignoto. Quello che voi venerate senza conoscerlo, io lo annunzio a voi! … », e riferisce – caso unico! – anche un verso dei loro poeti (v. 28). Tutto inutile. L’insuccesso è quasi totale. Malgrado l’una o l’altra conversione, Paolo capisce che non c’è niente da fare e, per la prima volta, lascia la città di sua spontanea iniziativa (18,1).
Prende la via sacra che passa per Eleusi, dove evidentemente non si ferma, e raggiunge la città di Corinto, ricca, dedita ai commerci, cosmopolita e di pessima fama (18,1-5). Prende alloggio nel quartiere giudaico e ha la buona fortuna di incontrare due sposi già cristiani, giunti da poco dall’Italia, cacciati come Giudei dall’imperatore Claudio: Aquila e Priscilla.
« Siccome esercitavano il suo stesso mestiere, andò a stare con loro e si misero a lavorare insieme ». Ogni sabato Paolo disputa nella sinagoga con i Giudei. Anzi (18,3), quando Sila e Timoteo portano i soccorsi dalla Macedonia, si dedica tutto alla predicazione (18,5). Ma ancora una volta urta contro un’opposizione inattesa.
A questo punto la serie degli insuccessi provoca in lui uno « choc ». Ecco il testo: « Facendo essi opposizione e scagliando ingiurie, Paolo scosse le sue vesti e disse loro: Il vostro sangue ricada sul vostro capo. Io sono puro. D’ora in poi mi rivolgerò ai gentili » (18,6). Il gesto di scuotere le vesti Paolo l’aveva già fatto ad Antiochia (13,51), e lo ripeterà poi ad Efeso (20,26) in circostanze simili. Ma qui soltanto aggiunge al gesto parole di imprecazione: « Il vostro sangue ricada sul vostro capo! « . Per lui, che scriverà ai Romani di provare, davanti all’incredulità di Israele, « una grande tristezza e un continuo dolore nel… cuore », e vorrebbe essere lui stesso « anatema dal Cristo » per i suoi « fratelli secondo la carne… » (Rom. 9,2-3), un tale grido è espressione di un animo quasi disperato, sul punto di abbandonare tutto: se i Giudei di Corinto non volevano sentir parlare di Gesù, che cosa si poteva aspettare dai pagani della città? Ma proprio nel crollo di ogni prospettiva umana interviene la grazia a dare all’ Apostolo abbattuto nuovo vigore.
Gli Atti raccontano che in queste circostanze Paolo, durante la notte, ebbe una visione del Signore, cioè di Gesù risorto; e Gesù gli disse: « Non temere, ma parla, e non tacere, perché io sono con te e nessuno ti metterà le mani addosso per farti del male; parla, perché ho un popolo grande in questa città! » (18,9-10). Paolo allora, senza alcuna speranza umana, forte unicamente della fiducia in Dio, come Abramo, obbedisce alla voce del Signore. E Corinto sarà una delle chiese più fiorenti da lui fondate. « Ho un popolo grande in questa città « .
A conferma del racconto degli Atti sta una confidenza fatta da Paolo stesso ai Corinti, quando, evocando gli inizi della predicazione ai membri della futura comunità, dice: « Fratelli miei, quando venni da voi, non mi presentai ad annunziare la testimonianza di Dio con sublimità di linguaggio o di sapienza… Io stesso mi trovai fra voi in uno stato di debolezza, di timore e di trepidazione, e il mio parlare, come la mia predicazione, non si basava su persuasivi argomenti di sapienza, ma su una dimostrazione di spirito e di potenza, affinché la vostra fede non si fondasse sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio » (1Cor. 2,1-5). Queste parole hanno il loro degno commento in quelle che già abbiamo lette, e che potrebbero chiamarsi la magna charta dell’apostolato: « La mia potenza si mostra appieno nella debolezza »; « quando sono debole, è ben allora che sono forte »; « molto volentieri mi glorierò delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo ».
Magna charta dell’apostolato. Di fatto non ci troviamo davanti al caso singolare di un apostolo, sia pure il più grande, San Paolo. Si tratta, in realtà, di una legge generale, insegnata attraverso tutta la Bibbia, legge di cui tutti i grandi servi tori di Dio – cioè coloro dei quali Dio ha voluto servirsi per operare la salvezza del mondo – hanno fatto l’esperienza.
Un esempio particolarmente chiaro è quello di Gedeone, nel libro dei Giudici, ossia dei « liberatori » o « salvatori » d’Israele. Il popolo di Dio è arrivato, finalmente, nella terra promessa, ma questa terra è da conquistare, e sembra che gli Ebrei abbiano ottenuto da Dio le prime vittorie solo per esser più sicuramente preda dei loro nemici. Anzi in questo preciso momento essi sono in balia dei Madianiti, così che « dovevano scavarsi spelonche, antri e fortezze sui monti » (Giud. 6,2). Israele invoca il soccorso di Dio, che invia il suo angelo a Gedeone. Il dialogo fra il messo divino e Gedeone non manca di drammaticità. « Il Signore è con te, prode campione!… – Ahimè, Signore mio, se veramente il Signore è con noi, come mai siamo colpiti da tanti mali? dove sono tutti i suoi prodigi, che i nostri padri ci narrano? Ora, invece, ci ha abbandonati e dati nelle mani di Madian. Allora il Signore lo guardò e disse: Orsù, con la forza che ti comunico libera Israele dai Madianiti! – Rispose Gedeone: Di grazia, Signore, con che mezzo potrò io mai liberare Israele? Ecco, la mia famiglia è la infima di Manasse ed io il più piccolo della casa di mio padre! – … Io sarò con te e tu abbatterai Madian come se fosse un sol uomo » (Giud.6,12-I6). Gedeone obbedisce, percorre le tribù di Israele e raduna quanti più può. Un buon numero: 32 mila! Veramente il Signore era con lui. Pieno di fiducia, « levatosi di buon mattino con tutti i suoi uomini, pose gli accampamenti contro i Madianiti. Allora il Signore disse a Gedeone: Troppa gente è con te, perché io possa dare Madian in tuo potere. Israele si glorierebbe contro di me, dicendo: È stato il mio valore che mi ha salvato! » (Giud.7,2). Questo sfoggio di potenza è un ostacolo da eliminare. Ecco allora la progressiva e drastica riduzione del numero degli armati. « Da’ questo ordine: Chiunque è timoroso ed ha paura, si ritiri e torni indietro. Se ne ritirarono allora 22 mila e ne rimasero solo 10 mila… La gente è ancora troppa! … »(7,3-4). Di riduzione in riduzione, il numero scende a 300. « Con questi uomini, io vi libererò e darò Madian nelle tue mani… » (7,7). Se la potenza dell’esercito era un ostacolo, la debolezza umana è ora una condizione favorevole, anzi necessaria, per il buon successo.
La stessa legge si applica al caso di David, prima alla sua chiamata (1 Sam. 16,1.6.11), poi al combattimento con Golia, quando il giovanetto grida all’avversario: « Tu vieni a me armato di spada, di lancia e di giavellotto, io vengo a te nel nome del Signore, che tu hai sfidato » (1 Sam. 17,45). Gli esempi sono innumerevoli. Basta ricordare, nel vangelo, il racconto della vocazione degli Apostoli al tempo della pesca miracolosa: « Abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla » (Lc. 5,5), esclama Pietro. Ebbene, proprio adesso vi trovate nelle condizioni favorevoli di strumenti di Dio. D’ora innanzi sarete « pescatori d’uomini ».
Di fatto, la prima applicazione che, scrivendo ai Corinti, San Paolo fa di questa legge della « potenza di Dio nella debolezza dell’uomo » è proprio alla vocazione stessa dei cristiani: « Quello che per il mondo è debole, Iddio lo scelse per confondere quello che è forte » (1 Cor. 1,27). Dio sceglie gli strumenti umanamente meno capaci o che si credono tali: Gedeone, David, coloro a cui gli uomini non pensavano. Cosi i dodici apostoli: tra i Giudei erano gli ultimi da scegliere per convertire dei compagni che detestavano e dai quali erano detestati! Perciò solo poco a poco riuscirono a capire di essere veramente mandati ai gentili (cfr. le esitazioni di Pietro in Atti 10).
Ma Paolo, lui, non era forse strumento perfettamente preparato anche sotto il profilo umano? Si. Però dobbiamo prima notare che si riteneva preparato per la conversione dei Giudei, non dei pagani. Lo mostra il fatto accaduto dopo la sua conversione, di cui egli stesso fa confidenza nel discorso ai Giudei di Gerusalemme: « Tornato a Gerusalemme, mentre stavo pregando nel tempio, fui rapito in estasi e vidi il Signore che mi diceva: Affrettati a partire da Gerusalemme, perché essi non riceveranno la tua testimonianza a mio riguardo. E io risposi: Signore, loro stessi sanno che io facevo mettere in prigione e battere con verghe nelle sinagoghe quelli che credevano in te… Ma egli mi replicò: Va’, io ti invierò lontano, alle nazioni » (Atti 22, 17-21). Soprattutto le capacità umane di Paolo furono continuamente ostacolate da queste necessità, angustie, persecuzioni di cui parla cosi spesso. Sembra che egli abbia esperimentato la sua debolezza radicale, la sua impotenza, proprio attraverso questi ostacoli, suscitati sulla sua strada sin dall’inizio (cfr. 2 Cor. 11,24-27): ostacoli « da parte dei Giudei », che impedivano la sua predicazione ai gentili, come abbiamo visto, e che lo faranno arrestare a Gerusalemme; ostacoli, anche, « da parte dei pagani ». Ricordiamo il procuratore Felice, che lo tiene due anni in carcere a Cesarea, nella speranza di averne del denaro: « perciò lo mandava spesso a chiamare » (Atti 24,26). Ostacoli, in modo particolare, da parte dei « fratelli », di coloro cioè che avrebbero dovuto aiutarlo. Sono i cristiani di origine giudaica, anzi « predicatori », che accusano Paolo di predicare un cristianesimo edulcorato, infedele alla rivelazione di Dio nell’Antico Testamento.
Il Signore permise che Paolo incontrasse questi avversari sin dagli inizi del suo ministero, ad Antiochia di Siria, donde deve salire a Gerusalemme per difendersi davanti agli Apostoli (Atti 15,1-2; cfr. Gal. 2,1.12), durante tutta la sua vita fino all’ultima tappa della seconda prigionia romana.
Così, per esempio, in Galazia è presentato come uno che cerca di piacere agli uomini e perciò annacqua il vangelo autentico, come un apostolo di secondo grado, che non aveva conosciuto il Cristo (Gal. 1,20; 2,6). A Corinto è accusato di dubbio versatilismo, arroganza e superbia (2 Cor. 1; 3,1); e i suoi avversari cristiani hanno talmente staccato la comunità dal suo Apostolo, che, non osando ritornarvi per paura di non essere ricevuto, manda avanti Tito per informarsi della situazione! A Gerusalemme teme che la comunità non accetti la colletta delle chiese della gentilità, raccolta con tanta cura e tanta fatica: perciò domanda ai Romani di pregare « affinché il soccorso che porta a Gerusalemme sia gradito ai santi » (Rom. 15,31). Ed il timore non era senza fondamento come prova l’accoglienza che riceve dalla comunità secondo la testimonianza stessa degli Atti: « Tu vedi, o fratello, le migliaia di Giudei che hanno creduto, e tutti sono zelanti della legge. Ora, sono venuti a sapere che tu insegni a tutti i Giudei che si trovano in mezzo ai gentili, di separarsi da Mosè, dicendo ad essi di non far circoncidere i loro figli e di non seguire le consuetudini. Che cosa, dunque, fare? » (Atti 21,20-21). Anzi la stessa opposizione lo segue a Roma – se, come si suppone generalmente, la lettera ai Filippesi è stata mandata da Roma: « Alcuni predicano il Vangelo per una certa invidia e per spirito di contesa… spinti da spirito di parte, per motivi non retti, immaginandosi di aggiungere sofferenze alle mie catene » (Fil. 1,15-17). In ogni caso, a Roma i suoi avversari hanno così ben lavorato, che, quando l’Apostolo vi fu per la seconda volta prigioniero, non sembra esser stato assistito quasi da nessun0 (3). Basta leggere la commovente 2Tim., scritta, forse, qualche settimana prima del suo martirio e a ragione chiamata « il testamento spirituale di San Paolo »: « Tu sai come tutti quelli che sono dell’Asia mi hanno abbandonato… » (1,15) « Affrettati a venire da me al più presto, perché Demas mi ha abbandonato per amore di questo mondo e se n’è andato a Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Soltanto Luca è con me… Alessandro, il ramaio, mi ha fatto molto male… Guardati anche tu da lui, perché si è opposto molto vivamente alla nostra parola. Nella mia prima difesa nessuno mi ha assistito: che ciò non venga loro imputato! Mi ha però assistito il Signore e mi ha dato forza, affinché la predicazione per mezzo mio fosse compiuta e venisse ascoltata da tutti i gentili; ed io sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà da ogni opera cattiva e mi conserverà per il suo regno celeste. A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen! » (4,9-18).
Mai, forse, nella sua vita 1′Apostolo si è sentito così isolato, così solo; mai, forse, ha esperimentato fino a questo punto il senso di debolezza, di impotenza. E il Signore gli permette di offrire, di fronte a tutti i gentili in questo tribunale romano, un’ultima, suprema e solenne testimonianza! Meglio, una penultima testimonianza, perché l’ultima, la suprema, sarà il suo martirio stesso, quando la spada del carnefice lo unirà per sempre al suo Signore (Cfr. Rom. 8, 35). Allora ancora una volta esperimenterà fino a qual punto « la potenza si mostra appieno nella debolezza ».
[1]. Il testo greco ha invece il dativo te sarki senza l’aggettivo possessivo.
[2]. V. anche 1 Cor.4,9-13.
[3]. V. A. PENNA, Le due prigionie romane di San Paolo in « Rivista Biblica » 9 (1961) pp. 193-208 (specie p. 204).

San Paolo mi sta insegnando…

Non c’è giorno che la parola di San Paolo non mi trasformi il cuore, molti pensieri, riflessioni e preghiere, ma frammentate durante la giornata, è difficile parlarne; 

c’è una frase di Paolo mi ritorna in questi giorni: “Ti basti la mia grazie” (2Cor 12)mentre pregava che Dio gli togliesse la spina dalla carne; due pensieri, che Dio lo ha esaudito, non che non lo ha esaudito, ossia, stare nel Signore vuole dire riconoscere la sua grandezza, la sua paternità, il suo essere tanto più grande “onnipotente, onnisciente”, il Signore, secondo me, invita San Paolo a riconoscere la sua superiore grandezza, a farsi piccolo, fiducioso, a rimanere in lui; 

un po’ sulla stessa linea, questa frase mi ha ricordato la risposta di Dio alle domande di Giobbe, in modo diverso anche a Giobbe Dio ricorda la sua grandezza, la sua superiore scienza, spesso si interpreta questo libro come se Dio non avesse risposto, per me ha risposto, ossia gli ha detto: “abbi fiducia in me, oltre quello che puoi comprendere”; infine Gesù con la sua venuta non ci ha detto: “abbiate fiducia in me”? nella sua Croce, nell’assurdità di quella croce, come l’amore supremo, comunque incomprensibile di Dio; 

io credo che San Paolo mi sta insegnando a fare domande invece che a chiedere risposte, come chiedere a Dio; non spiegazioni, non cose per me o su di me, ma la scienza di Dio, la sua conoscenza, il suo amore, e allora tutto quello che mi passa intorno, quello che vivo, diventa l’amore di Dio per me; non so se mi sono spiegata bene: ossia pensare Dio, amare Dio, non guardare alla mia persona, ma alla persona di Dio, non alle mie croci, ma alle sua Croce,  non alla mia piccola capacità di amare, ma al suo amore fedele e infinito; 

È MORTO ALESSIO II – MESSAGGIO DEL PAPA

È MORTO ALESSIO II - MESSAGGIO DEL PAPA dans CHIESA ORTODOSSA godong_fr346693c

Il Cardinale André Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi, a Notre-Dame, invita sua Santità Alessio II a benedire l’assemblea, Parigi 3 novembre 2008:

http://www.notredamedeparis.fr/Visite-de-sa-Saintete-Alexis-II

dal sito:

http://www.agensir.it/pls/sir/V2_S2DOC_B.quotidiano?tema=Quotidiano&argomento=dettaglio&sezione=&data_ora=05/12/2008&id_oggetto=163836&id_session=guest&password=guest&quantita=

15:38 – ALESSIO II: IL MESSAGGIO DEL PAPA
 
Un “instancabile ministro” del Signore, compagno nel “comune impegno sul cammino della reciproca comprensione e collaborazione tra cattolici e ortodossi”. Così Benedetto XVI definisce Alessio II, nel telegramma di cordoglio inviato al Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Russa, al quale esprime “fraterno affetto” e assicura “spirituale vicinanza in questo momento di grande tristezza”. “Memore del comune impegno sul cammino della reciproca comprensione e collaborazione fra ortodossi e cattolici – scrive il Santo Padre – mi è gradito ricordare gli sforzi che il defunto patriarca ha profuso per la rinascita della Chiesa, dopo la dura oppressione ideologica, che ha causato il martirio di tanti testimoni della fede cristiana”. Di Alessio II il Papa ricorda anche “la buona battaglia per la difesa dei valori umani ed evangelici che egli ha condotto in particolare nel Continente europeo, auspicando che il suo impegno produca frutti di pace e di autentico progresso umano, sociale e spirituale”. “Nell’ora sofferta del commiato, mentre il suo corpo mortale viene affidato alla terra in attesa della risurrezione – la preghiera finale del Pontefice – possa la memoria di questo servitore del Vangelo di Cristo essere sostegno per quanti ora sono nel dolore e di incoraggiamento a quanti ne raccoglieranno l’eredità nel guidare codesta veneranda Chiesa Ortodossa Russa”.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, PATRIARCHI |on 5 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

Padre Cantalamessa – Predicatore del Papa: Paolo, modello di vera conversione evangelica

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16401?l=italian

Predicatore del Papa: Paolo, modello di vera conversione evangelica


Prima predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap.

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 5 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la prima predica d’Avvento pronunciata alla presenza di Benedetto XVI da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia.

Nel cuore dell’anno paolino, padre Cantalamessa ha proposto una riflessione sul posto che occupa Cristo nel pensiero e nella vita dell’Apostolo, in vista di un rinnovato sforzo per mettere la persona di Cristo al centro della teologia della Chiesa e della vita spirituale dei credenti.

* * *

« QUELLO CHE POTEVA ESSERE UN GUADAGNO

L’HO CONSIDERATO UNA PERDITA A MOTIVO DI CRISTO »

L’anno paolino è una grazia grande per la Chiesa, ma presenta anche un pericolo: quello di fermarsi a Paolo, alla sua personalità, la sua dottrina, senza fare il passo successivo da lui a Cristo. Il Santo Padre ha messo in guardia contro questo rischio nell’omelia stessa in cui ha indetto l’anno paolino e nell’udienza generale del 2 Luglio scorso ribadiva: « È questo il fine dell’anno Paolino: imparare da san Paolo, imparare la fede, imparare il Cristo ».

È successo tante volte nel passato, fino a dar luogo all’assurda tesi secondo cui Paolo, non Cristo, sarebbe il vero fondatore del cristianesimo. Gesù Cristo sarebbe stato per Paolo quello che Socrate era stato per Platone: un pretesto, un nome, sotto il quale mettere il proprio pensiero.

L’Apostolo, come prima di lui Giovanni Battista, è un indice puntato verso uno « più grande di lui », di cui egli non si ritiene degno nemmeno di essere apostolo. Quella tesi è il travisamento più completo e l’offesa più grave che si possa fare all’apostolo Paolo. Se tornasse in vita, egli reagirebbe a quella tesi con la stessa veemenza con cui reagì di fronte a un analogo fraintendimento dei corinzi: « Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? » (1 Cor 1,13).

Un altro ostacolo da superare, anche per noi credenti, è quello di fermarci alla dottrina di Paolo su Cristo, senza lasciarci contagiare dal suo amore e dal suo fuoco per lui. Paolo non vuole essere per noi solo un sole d’inverno che illumina ma non riscalda. L’intento evidente delle sue lettere è di portare i lettori non solo alla conoscenza, ma anche all’amore e alla passione per Cristo.

A questo scopo vorrebbero contribuire le tre meditazioni di Avvento di quest’anno, a partire da questa di oggi in cui rifletteremo sulla conversione di Paolo, l’avvenimento che, dopo la morte e risurrezione di Cristo, ha maggiormente influito sul futuro del cristianesimo.

1. La conversione di Paolo vista da dentro

La migliore spiegazione della conversione di san Paolo è quella che da lui stesso quando parla del battesimo cristiano come di un essere « battezzati nella morte di Cristo » « sepolti insieme con lui » per risorgere con lui e « camminare in una vita nuova » (cf. Rom 6, 3-4). Egli ha rivissuto in sé il mistero pasquale di Cristo, intorno a cui ruoterà in seguito tutto il suo pensiero. Ci sono delle analogie anche esterne impressionanti. Gesù rimase tre giorni nel sepolcro; per tre giorni Saulo visse come un morto: non poteva vedere, stare in piedi, magiare, poi al momento del battesimo i suoi occhi si riaprirono, poté mangiare e riprendere le forze, tornò in vita  (cf. Atti 9,18).

Subito dopo il suo battesimo, Gesù si ritirò nel deserto e anche Paolo, dopo essere stato battezzato da Anania, si ritirò nel deserto di Arabia, cioè nel deserto intorno a Damasco. Gli esegeti calcolano che tra l’evento sulla via di Damasco e l’inizio della sua attività pubblica nella Chiesa ci sono una decina d’anni di silenzio nella vita di Paolo. Gli ebrei lo cercavano a morte, i cristiani non si fidavano ancora e avevano paura di lui. La sua conversione ricorda quella del cardinal Newman che gli ex fratelli di fede anglicani consideravano un transfuga e i cattolici guardavano con sospetto per le sue idee nuove e ardite.

L’Apostolo ha fatto un lungo noviziato; la sua conversione non è durata pochi minuti. Ed è in questa sua kenosi, in questo tempo di svuotamento e di silenzio che ha accumulato quella energia dirompente e quella luce che un giorno riverserà sul mondo.

Della conversione di Paolo abbiamo due diverse descrizioni: una che descrive l’evento, per così dire, dall’esterno, in chiave storica e un’altra che descrive l’evento dall’interno, in chiave psicologica o autobiografica. Il primo tipo è quello che troviamo nelle tre diverse relazioni che si leggono negli Atti degli apostoli. Ad esso appartengono anche alcuni accenni che Paolo stesso fa dell’evento, spiegando come da persecutore divenne apostolo di Cristo (cf. Gal 1, 13-24).

Al secondo tipo appartiene il capitolo 3 della Lettera ai Filippesi, in cui l’Apostolo descrive quello che ha significato per lui, soggettivamente, l’incontro con Cristo, quello che era prima e quello che è diventato in seguito; in altre parole, in che è consistito, esistenzialmente e religiosamente, il cambiamento intervenuto nella sua vita. Noi ci concentriamo  su questo testo che, per analogia con l’opera agostiniana, potremmo definire « le confessioni di S. Paolo ».

In ogni cambiamento c’è un terminus a quo e un terminus ad quem, un punto di partenza e un punto di arrivo. L’Apostolo descrive anzitutto il punto di partenza, quello che era prima:

« Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge » (Fil 3, 4-6).

Ci si può facilmente sbagliare nel leggere questa descrizione: questi non erano titoli negativi, ma i massimi titoli di santità del tempo. Con essi si sarebbe potuto aprire subito il processo di canonizzazione di Paolo, se fosse esistito a quel tempo. È come dire di uno oggi: battezzato l’ottavo giorno, appartenente alla struttura per eccellenza della salvezza, la chiesa cattolica, membro dell’ordine religioso più austero della Chiesa (questo erano i farisei!), osservantissimo della Regola… ».

Invece c’è nel testo un punto  a capo che divide in due la pagina e la vita di Paolo. Si riparte da un « ma » avversativo che crea un contrasto totale:

« Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo » (Fil 3, 7-8).

Tre volte ricorre il nome di Cristo in questo breve testo. L’incontro con lui ha diviso la sua vita in due, ha creato un prima e poi. Un incontro personalissimo (è l’unico testo dove l’apostolo usa il singolare « mio », non « nostro » Signore) e un incontro esistenziale più che mentale. Nessuno mai potrà conoscere a fondo cosa avvenne in quel breve dialogo: « Saulo, Saulo! » « Chi sei tu, Signore? Io sono Gesù! ». Una « rivelazione », la definisce lui (Gal 1, 15-16). Fu una specie di fusione a fuoco, un lampo di luce che ancora oggi, a distanza di duemila anni, rischiara il mondo.

2. Un cambiamento di mente

Proviamo ad analizzare il contenuto dell’evento. È stato anzitutto un cambiamento di mente, di pensiero, letteralmente una metanoia. Paolo aveva fino allora creduto di potersi salvare ed essere giusto davanti a Dio mediante l’osservanza scrupolosa della legge e delle tradizioni dei padri. Ora capisce che la salvezza si ottiene in altro modo. Voglio essere trovato, dice, « non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede » (Fil 3, 8-9). Gesù gli ha fatto sperimentare su di sé quello che un giorno avrebbe dovuto proclamare a tutta la Chiesa: la giustificazione per grazia mediante la fede (cf. Gal 2,15-16; Rom 3, 21 ss.).

Leggendo il capitolo terzo della Lettera ai Filippesi a me viene in mente un’immagine: un uomo cammina di notte in un fitto bosco al fioco lume di una candela, facendo attenzione a che non si spenga; camminando, camminando viene l’alba, sorge il sole, il fioco lume di candela impallidisce, finché non gli serve più e lo getta via. Il lucignolo fumigante era la sua propria giustizia. Un giorno, nella vita di Paolo, è spuntato il sole di giustizia, Cristo Signore,  e da quel momento non ha voluto altra luce che la sua.

Non si tratta di un punto accanto ad altri, ma del cuore del messaggio cristiano; lui lo definirà il « suo vangelo », al punto di dichiarare anatema chi osasse predicare un vangelo diverso, fosse pure un angelo o lui stesso (cf. Gal 1, 8-9). Perché tanta insistenza? Perché in ciò consiste la novità cristiana, quello che la distingue da ogni altra religione o filosofia religiosa. Ogni proposta religiosa comincia dicendo agli uomini quello che devono fare per salvarsi o ottenere la « Illuminazione ». Il cristianesimo non comincia dicendo agli uomini quello che devono fare, ma quello che Dio ha fatto per loro in Cristo Gesù. Il cristianesimo è la religione della grazia.

C’è posto – e come – per i doveri e l’osservanza dei comandamenti, ma dopo, come risposta alla grazia, non come sua causa o suo prezzo. Non ci si salva per le buone opere, anche se non ci si salva senza le buone opere. È una rivoluzione di cui, a distanza di duemila anni, ancora stentiamo a prendere coscienza. Le polemiche teologiche sulla giustificazione mediante la fede dalla Riforma in poi l’hanno spesso ostacolata più che favorita perché hanno mantenuto il problema a livello teorico, di tesi di scuole contrapposte, anziché aiutare i credenti a farne esperienza nella loro vita.

3. « Convertitevi e credete al vangelo »

Ma dobbiamo porci una domanda cruciale: chi è l’inventore di questo messaggio? Se esso fosse l’Apostolo Paolo, allora avrebbero ragione quelli che dicono che è lui, non Gesù, il fondatore del cristianesimo. Ma l’inventore non è lui; egli non fa che esprimere in termini elaborati e universali un messaggio che Gesù esprimeva con il suo tipico linguaggio, fatto di immagini  e di parabole.

Gesù iniziò la sua predicazione dicendo: « Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 15). Con queste parole egli insegnava già la giustificazione mediante la fede. Prima di lui, convertirsi significava sempre « tornare indietro » (come indica lo stesso termine ebraico shub); significava tornare all’alleanza violata, mediante una rinnovata osservanza della legge. « Convertitevi a me [...], tornate indietro dal vostro cammino perverso », diceva Dio nei profeti  (Zc 1, 3-4; Ger 8, 4-5).

Convertirsi, conseguentemente, ha un significato principalmente ascetico, morale e penitenziale e si attua  mutando condotta di vita. La conversione è vista come condizione per la salvezza; il senso è: convertitevi e sarete salvi; convertitevi e la salvezza verrà a voi. Questo è il significato predominante che la parola conversione ha sulle labbra stesse di Giovanni Battista (cf. Lc 3, 4-6). Ma sulla bocca di Gesù, questo significato morale passa in secondo piano (almeno all’inizio della sua predicazione), rispetto a un significato nuovo, finora sconosciuto. Anche in ciò si manifesta il salto epocale che si verifica tra la predicazione di Giovanni Battista e quella di Gesù.

Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa fare un salto in avanti, entrare nella nuova alleanza, afferrare questo Regno che è apparso, entrarvi mediante la fede. « Convertitevi e credete » non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione: convertitevi, cioè credete; convertitevi credendo! « Prima conversio fit per fidem », dirà san Tommaso d’Aquino, la prima conversione consiste nel credere (1).

Dio ha preso, lui, l’iniziativa della salvezza: ha fatto venire il suo Regno; l’uomo deve solo accogliere, nella fede, l’offerta di Dio e viverne, in seguito, le esigenze. È come di un re che apre la porta del suo palazzo, dove è apparecchiato un grande banchetto e, stando sull’uscio, invita tutti i passanti a entrare, dicendo: « Venite, tutto è pronto! ». È l’appello che risuona in tutte le cosiddette parabole del Regno: l’ora tanto attesa è scoccata, prendete la decisione che salva, non lasciatevi sfuggire l’occasione!

L’Apostolo dice la stessa cosa con la dottrina della giustificazione mediante la fede. L’unica differenza è dovuta a ciò che è avvenuto, nel frattempo, tra la predicazione di Gesù e quella di Paolo: Cristo è stato rifiutato e messo a morte per i peccati degli uomini. La fede « nel Vangelo » (« credete al Vangelo »), ora si configura come fede « in Gesù Cristo », « nel suo sangue » (Rm 3, 25).

Quello che l’Apostolo esprime mediante l’avverbio « gratuitamente »(dorean) o « per grazia », Gesù lo diceva con l’immagine del ricevere il regno come un bambino, cioè come dono, senza accampare meriti, facendo leva solo sull’amore di Dio, come i bambini fanno leva sull’amore dei genitori.

Si discute da tempo tra gli esegeti se si debba continuare a parlare della conversione di san Paolo; alcuni preferiscono parlare di « chiamata », anziché di conversione. C’è chi vorrebbe che si abolisse addirittura la festa della conversione di S. Paolo, dal momento che conversione indica un distacco e un rinnegare qualcosa, mentre un ebreo che si converte, a differenza del pagano, non deve rinnegare nulla, non deve passare dagli idoli al culto del vero Dio (2).

A me pare che siamo davanti a falso problema. In primo luogo non c’è opposizione tra conversione e chiamata: la chiamata suppone la conversione, non la sostituisce, come la grazia non sostituisce la libertà. Ma soprattutto abbiamo visto che la conversione evangelica non è un rinnegare qualcosa, un tornare indietro, ma un accogliere qualcosa di nuovo, fare un balzo in avanti. A chi parlava Gesù quando diceva: « Convertitevi e credete al vangelo »? Non parlava forse a degli ebrei? A questa stessa conversione si riferisce l’Apostolo con le parole: « Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo verrà rimosso » (2Cor 3,16).

La conversione di Paolo ci appare, in questa luce, come il modello stesso della vera conversione cristiana che consiste anzitutto nell’accettare Cristo, nel « rivolgersi » a lui mediante la fede. Essa è un trovare prima che un lasciare. Gesù non dice: un uomo vendette tutto che quello che aveva e si mise alla ricerca di un tesoro nascosto; dice: un uomo trovò un tesoro e per questo vendette tutto.

4. Un’esperienza vissuta

Nel documento di accordo tra la Chiesa cattolica e la Federazione mondiale della Chiese luterane sulla giustificazione mediante la fede, presentato solennemente nella Basilica di S. Pietro da Giovanni Paolo II e l’arcivescovo di Uppsala nel 1999, c’è una raccomandazione finale che mi pare di importanza vitale. Dice in sostanza questo: è venuto il momento di fare di questa grande verità una esperienza vissuta da parte dei credenti, e non più un oggetto di dispute teologiche tra dotti, come è avvenuto nel passato.

La ricorrenza dell’anno paolino ci offre una occasione propizia per fare questa esperienza. Essa può dare un colpo d’ala alla nostra vita spirituale, un respiro e una libertà nuova. Charles Péguy ha raccontato, in terza persona, la storia del più grande atto di fede della sua vita. Un uomo, dice, (e si sa che quest’uomo era lui stesso) aveva tre figli e un brutto giorno essi si ammalarono, tutti e tre insieme. Allora aveva fatto un colpo di audacia. Al ripensarci si ammirava anche un po’ e bisogna dire che era stato davvero un colpo ardito. Come si prendono tre bambini da terra e si mettono tutti e tre insieme, quasi per gioco, nelle braccia della loro madre o della loro nutrice che ride e dà in esclamazioni, dicendo che sono troppi e non avrà la forza di portarli, così lui, ardito come un uomo, aveva preso -s’intende, con la preghiera – i suoi tre bambini nella malattia e tranquillamente li aveva messi nelle braccia di Colei che è carica di tutti i dolori del mondo: «Vedi – diceva – te li do, mi volto e scappo, perché tu non me li renda. Non li voglio più, lo vedi bene! Devi pensarci tu». (Fuori metafora, era andato a piedi in pellegrinaggio da Parigi a Chartres per affidare alla Madonna i suoi tre bambini malati). Da quel giorno, tutto andava bene, naturalmente, poiché era la Santa Vergine a occuparsene. È perfino curioso che non tutti i cristiani facciano altrettanto. È così semplice, ma non si pensa mai a ciò che è semplice (3).

La storia ci serve in questo momento per l’idea del colpo di audacia, perché è di qualcosa del genere che si tratta. La chiave di tutto, si diceva, ciò è la fede. Ma ci sono diversi tipi di fede: c’è la fede-assenso dell’intelletto, la fede-fiducia, la fede-stabilità, come la chiama Isaia (7, 9): di quale fede si tratta, quando si parla della giustificazione «mediante la fede»? Si tratta di una fede tutta speciale: la fede-appropriazione!

Ascoltiamo, su questo punto, san Bernardo: «Io – dice -, quello che non posso ottenere da me stesso, me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore, perché è pieno di misericordia. Mio merito, perciò, è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti, finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte (Sal 119, 156), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia. Infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio» (4). È scritto infatti che  « Cristo Gesù … è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (l Cor l, 30). Per noi, non per se stesso!

San Cirillo di Gerusalemme  esprimeva, con altre parole, la stessa idea del colpo di audacia della fede: «O bontà straordinaria di Dio verso gli uomini! I giusti dell’Antico Testamento piacquero a Dio nelle fatiche di lunghi anni; ma quello che essi giunsero a ottenere, attraverso un lungo ed eroico servizio accetto a Dio, Gesù te lo dona nel breve spazio di un’ora. Infatti, se tu credi che Gesù Cristo è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo e sarai introdotto in paradiso da quello stesso che vi introdusse il buon ladrone» (5).

Immagina, scrive il Cabasilas sviluppando un’immagine di san Giovanni Crisostomo, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.

Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico, in tal caso quell’uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l’otterrà! Ebbene, così avviene tra Cristo e noi. Pur non avendo ancora faticato e lottato – pur non avendo ancora alcun merito -, tuttavia, per mezzo della fede noi inneggiamo alla lotta di Cristo, ammiriamo la sua vittoria, onoriamo il suo trofeo che è la croce e per lui valoroso, mostriamo veemente e ineffabile amore; facciamo nostre quelle ferite e quella morte (6). È così che si ottiene la salvezza.

La liturgia di Natale ci parlerà del « santo scambio », del sacrum commercium, tra noi e Dio realizzato in Cristo.  La legge di ogni scambio  si esprime nella formula: quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio. Ne deriva che quello che è mio, cioè il peccato, la debolezza, diventa di Cristo; quello che è di Cristo, cioè la santità, diventa mio. Poiché noi apparteniamo a Cristo più che a noi stessi (cf.1 Cor 6, 19-20), ne consegue, scrive il Cabasilas, che, inversamente, la santità di Cristo ci appartiene più che la nostra stessa santità (7). E’ questo il colpo d’ala nella vita spirituale. La sua scoperta non si fa, di solito, all’inizio, ma alla fine del proprio itinerario spirituale, quando si sono sperimentate tutte le altre strade e si è visto che non portano molto lontano.

Nella Chiesa cattolica abbiamo un mezzo privilegiato per fare esperienza concreta e quotidiana di questo sacro scambio e della giustificazione per grazia, mediante la fede: i sacramenti. Ogni volta che io mi accosto al sacramento della riconciliazione faccio concretamente l’esperienza di essere giustificato per grazia, ex opere operato, come diciamo in teologia. Salgo al tempio, dico a Dio: « O Dio, abbia pietà di me peccatore » e, come il pubblicano, me ne torno a casa « giustificato »  (Lc 18,14), perdonato, con l’anima splendente, come al momento in cui uscii dal fonte battesimale.

Che san Paolo, in questo anno a lui dedicato, ci ottenga la grazia di fare come lui questo colpo di audacia della fede.                       

(1) S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I-IIae, q. 113,a.4.

(2) Cf. J.M.Everts, Conversione e chiamata di Paolo, in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo 1999, pp. 285-298 (riassunto delle posizioni e bibliografia).

(3) Cf. Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù.

(4) In Cant. 61, 4-5; PL 183, 1072.

(5) Catechesi,. 5, 10; PG 33,517.

(6) Cf. N. Cabasilas, Vita in Cristo, I, 5; PG 150,517.

(7) N. Cabasilas, Vita in Cristo IV, 6 (PG 150, 613).

Publié dans:PADRE CANTALAMESSA - OMELIE |on 5 décembre, 2008 |Pas de commentaires »
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