Archive pour décembre, 2008

II predica di Avvento: Predicatore del Papa: Dio ci chiama alla comunione con Gesù (Fil 2, 7-12)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16485?l=italian

Predicatore del Papa: Dio ci chiama alla comunione con Gesù (Fil 2, 7-12)

Seconda predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap.

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la seconda predica d’Avvento pronunciata alla presenza di Benedetto XVI da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia.

Nel cuore dell’anno paolino, padre Cantalamessa ha proposto una riflessione sul posto che occupa Cristo nel pensiero e nella vita dell’Apostolo, in vista di un rinnovato sforzo per mettere la persona di Cristo al centro della teologia della Chiesa e della vita spirituale dei credenti.

ZENIT ha pubblicato il testo della prima predica di padre Cantalamessa il 5 dicembre

* * *

« Chiamati da Dio

alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo »

Per rimanere fedeli al metodo della lectio divina, tanto raccomandata dal recente sinodo dei vescovi, ascoltiamo anzitutto le parole di san Paolo sulle quali vogliamo riflettere in questa meditazione:

« Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo » (Fil 3, 7-12).

1. « Perché io possa conoscere Lui… »

La volta scorsa abbiamo meditato sulla conversione di Paolo come una metanoia, un cambiamento di mente, nel modo di concepire la salvezza. Paolo però non si è convertito a una dottrina, fosse pure la dottrina della giustificazione mediante la fede; si è convertito a una persona! Prima che un cambiamento di pensiero, il suo è stato un cambiamento di cuore, l’incontro con una persona viva. Si usa spesso l’espressione « colpo di fulmine » per indicare un amore a prima vista che travolge ogni ostacolo; in nessun caso questa metafora è più appropriata che per san Paolo.

Vediamo come questo cambiamento di cuore traspare dal testo appena ascoltato. Egli parla del « bene supremo » (hyperechon) di conoscere Cristo e si sa che in questo caso, come in tutta la Bibbia, conoscere non indica una scoperta solo intellettuale, un farsi un’idea di qualcosa, ma un legame vitale intimo, un entrare in rapporto con l’oggetto conosciuto. Lo stesso vale per l’espressione « …perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze ». « Conoscere la partecipazione alle sofferenze » non significa, evidentemente, averne un’idea, ma sperimentarle.

Mi è capitato di leggere questo brano in un momento particolare della mia vita in cui mi trovavo anch’io davanti a una scelta. Mi ero occupato di cristologia, avevo scritto e letto tanto su questo argomento, ma quando lessi « perché io possa conoscere Lui », capii di colpo che quel semplice pronome personale « lui » (autòn) conteneva più verità su Gesù Cristo che tutti i libri scritti o letti su di lui. Capii che per l’Apostolo Cristo non era un insieme di dottrine, di eresie, di dogmi; era una persona viva, presente e realissima che si poteva designare con un semplice pronome, come si fa, quando si parla di qualcuno che è presente, indicandolo con il dito.

L’effetto dell’innamoramento è duplice. Da una parte opera una drastica riduzione ad uno, una concentrazione sulla persona amata che fa passare in secondo piano tutto il resto del mondo; dall’altra rende capaci di soffrire qualsiasi cosa per la persona amata,  di accettare la perdita di tutto. Vediamo entrambi questi effetti realizzati alla perfezione nel momento in cui l’Apostolo scopre Cristo: « per lui, dice,  ho accettato la perdita  di tutte queste cose e le considero come spazzatura ».

Ha accettato  la perdita dei suoi privilegi di « ebreo da ebrei », la stima e l’amicizia dei suoi maestri e connazionali, l’odio e la commiserazione di quanti non comprendevano come un uomo come lui avesse potuto farsi sedurre da una setta di fanatici senza arte né parte. Nella seconda Lettera ai Corinzi c’è l’elenco impressionante di tutte le cose sofferte per Cristo  (cf. 2 Cor 11, 24-28).

L’Apostolo ha trovato lui stesso la parola che da sola racchiude tutto: « conquistato da Cristo ». Si potrebbe tradurre anche afferrato, affascinato, o con una espressione di Geremia, « sedotto » da Cristo. Gli innamorati non si trattengono; lo hanno fatto tanti mistici al colmo del loro ardore. Io non ho difficoltà, perciò, a immaginare un Paolo che in un impeto di gioia, dopo la sua conversione, grida da solo agli alberi o in riva al mare quello che più tardi scriverà ai Filippesi: « Sono stato conquistato da Cristo! Sono stato conquistato da Cristo! »

Conosciamo bene le frasi lapidarie e pregnanti dell’Apostolo che ognuno di noi amerebbe poter ripetere nella propria vita: « Per me vivere è Cristo » (Fil 1,21), e « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20).

2. « In Cristo »

Ora, tenendo fede a quanto annunciato nel programma di queste prediche, vorrei mettere in luce quello che, su questo punto, il pensiero di Paolo può significare, prima per la teologia di oggi e poi per la vita spirituale dei credenti. 

L’esperienza personale ha condotto Paolo a una visione globale della vita cristiana che egli indica con l’espressione « in Cristo » (en Christo). La formula ricorre 83 volte nel corpus paolino, senza contare l’espressione affine « con Cristo » (syn Christo) e le espressioni pronominali equivalenti « in lui » o « in colui che ».

È quasi impossibile tradurre con parole il contenuto pregnante di queste frasi. La preposizione « in » ha un significato ora locale, ora temporale (al momento in cui Cristo muore e risorge), ora strumentale (per mezzo di Cristo). Delinea l’atmosfera spirituale in cui il cristiano vive e agisce. Paolo applica a Cristo quello che nel discorso all’Areopago  di Atene dice di Dio, citando un autore pagano: « In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo » (Atti 17, 28). Più tardi l’evangelista Giovanni esprimerà la stessa visione con l’immagine del « rimanere in Cristo » (Gv 15, 4-7). 

Su queste espressioni fanno leva quelli che parlano di mistica paolina. Frasi come « Dio ha riconciliato  a sé il mondo in Cristo » (2 Cor 5,19) sono totalizzanti, non lasciano fuori di Cristo nulla e nessuno. Dire che i credenti sono « chiamati a essere santi » (Rom 1,7) equivale per l’Apostolo a dire che  sono « chiamati da Dio alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo » (1 Cor 1,9).

Giustamente, anche in seno al mondo protestante, oggi si comincia a considerare la visione sintetizzata nell’espressione « in Cristo » o « nello Spirito » come più centrale e rappresentativa del pensiero di Paolo che la stessa dottrina della giustificazione mediante la fede.

L’anno paolino potrebbe rivelarsi l’occasione provvidenziale per chiudere tutto un periodo di discussioni e contrasti legati più al passato che al presente e aprire un nuovo capitolo nell’utilizzo del pensiero dell’Apostolo. Tornare a utilizzare le sue lettere, e in primo luogo la Lettera ai Romani, per lo scopo per cui furono scritte che non era, certo, quello di fornire alle generazioni future una palestra in cui esercitare il loro acume teologico, ma quello di edificare la fede della comunità, formata per lo più da gente semplice e illetterata. « Ho un vivo desiderio, scrive ai Romani,  di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io » (Rom 1, 11-12).

3. Oltre la Riforma e la Controriforma

È tempo, credo, di andare oltre la Riforma e oltre la Controriforma. La posta in gioco all’inizio del terzo millennio, non è più la stessa dell’inizio del secondo millennio, quando si produsse la separazione tra oriente e occidente, e neppure è quella a metà del millennio, quando si produsse, in seno alla cristianità occidentale, la separazione tra cattolici e protestanti.

Per fare un solo esempio, il problema non è più quello di Lutero di come liberare l’uomo dal senso di colpa che l’opprime, ma come ridare all’uomo il vero senso del peccato che ha smarrito del tutto. Che senso ha continuare a discutere su « come avviene la giustificazione dell’empio », quando l’uomo è convinto di non aver bisogno di alcuna giustificazione e dichiara con orgoglio: « Io stesso oggi mi accuso e solo io posso assolvermi, io l’uomo »? (1)

Io credo che tutte le secolari discussioni tra cattolici e protestanti intorno alla fede e alle opere hanno finito per farci perdere di vista il punto principale del messaggio paolino, spostando spesso  l’attenzione da Cristo alle dottrine su Cristo, in pratica, da Cristo agli uomini. Quello che all’Apostolo preme anzitutto affermare in Romani 3 non è che siamo giustificati per la fede, ma che siamo giustificati per la fede in Cristo; non è tanto che siamo giustificati per la grazia, quanto che siamo giustificati per la grazia di Cristo. L’accento è su Cristo, più ancora che sulla fede e sulla grazia.

Dopo avere nei due precedenti capitoli della Lettera presentato l’umanità nel suo universale stato di peccato e di perdizione, l’Apostolo ha l’incredibile coraggio di proclamare che questa situazione è ora radicalmente cambiata « in virtù della redenzione realizzata da Cristo », « per l’obbedienza di un solo uomo » (Rom 3, 24; 5, 19).  L’affermazione che questa salvezza si riceve per fede, e non per le opere, è importantissima, ma essa viene in secondo luogo, non in primo. Si è commesso l’errore di ridurre a un problema di scuole, interno al cristianesimo, quella che era per l’Apostolo una affermazione di portata più vasta, cosmica e universale.

Questo messaggio dell’Apostolo sulla centralità di Cristo è di grande attualità. Molti fattori portano infatti a mettere tra parentesi oggi la sua persona. Cristo non entra in questione in nessuno dei tre dialoghi più vivaci in atto oggi tra la chiesa e il mondo. Non nel dialogo tra fede e filosofia, perché la filosofia si occupa di concetti metafisici, non di realtà storiche come è la persona di Gesù di Nazareth; non nel dialogo con la scienza, con la quale si può unicamente discutere dell’esistenza o meno di un Dio creatore, di un progetto al di sotto dell’evoluzione; non, infine, nel dialogo interreligioso, dove ci si occupa di quello che le religioni possono fare insieme, nel nome di Dio, per il bene dell’umanità.

Pochi anche tra i credenti, interrogati in che cosa credono, risponderebbero: credo che Cristo è morto per i miei peccati ed è risorto per la mia giustificazione. I più risponderebbero: credo nell’esistenza di Dio, in una vita dopo la morte. Eppure per Paolo, come per tutto il NT, la fede che salva è solo quella nella morte e risurrezione di Cristo: « Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » (Rom 10,9).

Nel mese scorso, si è tenuto qui in Vaticano, nella Casina Pio IV, un simposio promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze, dal titolo « Vedute scientifiche intorno all’evoluzione dell’universo e della vita », cui hanno partecipato i massimi scienziati di tutto il mondo. Ho voluto intervistare, per il programma che conduco ogni sabato sera in TV sul vangelo, uno dei partecipanti, il Prof. Francis Collins, direttore del gruppo di ricerca che portò nel 2000 alla completa decifrazione del genoma umano. Sapendolo un credente, gli ho posto, tra le altre, la domanda: « Lei ha creduto prima in Dio o in Gesù Cristo? » Ha risposto:

« Sino all’età di circa 25 anni ero ateo, non avevo una preparazione religiosa, ero uno scienziato che riduceva quasi tutto ad equazioni e leggi di fisica. Ma come medico ho cominciato a vedere la gente che doveva affrontare il problema della vita e della morte, e questo mi ha fatto pensare che il mio ateismo non era un’idea radicata. Ho cominciato a leggere testi sulle argomentazioni razionali della fede che io non conoscevo. Per prima cosa sono arrivato alla convinzione che l’ateismo era l’alternativa meno accettabile. A poco a poco sono giunto alla conclusione che deve esistere un Dio che ha creato tutto questo, ma non sapevo com’era questo Dio ».

È istruttivo leggere, nel suo libro « Il linguaggio di Dio », come superò questa impasse:

« Trovavo difficile gettare un ponte verso questo Dio. Più imparavo a conoscerlo, più la sua purezza e santità mi apparivano inavvicinabili. In questa amara consapevolezza arrivò la persona di Gesù Cristo. Era passato più di un anno da quando avevo deciso di credere in qualche specie di Dio, ed ora ero arrivato alla resa dei conti. In un bel mattino di autunno, mentre per la prima volta passeggiando sulle montagne mi spingevo all’ovest del Mississippi, la maestà e bellezza della creazione vinsero la mia resistenza. Capii che la ricerca era arrivata al termine. Il mattino seguente, al sorgere del sole, mi inginocchiai sull’erba bagnata e mi arresi a Gesù Cristo » (2).

Viene da pensare alla parola di Cristo: « Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me ». È solo in lui che Dio diventa accessibile e credibile. Grazie a questa fede ritrovata, il momento della scoperta del genoma umano fu, nello stesso tempo, dice lui, un’esperienza di esaltazione scientifica e di adorazione religiosa.

La conversione di questo scienziato dimostra che l’evento di Damasco si rinnova nella storia; Cristo è lo stesso, oggi come allora. Non è facile per uno scienziato, specie per un biologo, dichiarasi oggi pubblicamente credente, come non lo fu per Saulo: si rischia di essere immediatamente « cacciati dalla sinagoga ». E di fatti è quello che è successo al Prof. Collins che per la sua professione di fede ha dovuto subire gli strali di molti laicisti.

4.  Dalla presenza di Dio alla presenza di Cristo

Mi resta da dire qualcosa sull’altro punto: cosa l’esempio di Paolo ha da dire per la vita spirituale dei credenti. Uno dei temi più trattati nella spiritualità cattolica è quello del pensiero della presenza di Dio (3). Non si contano i trattati su questo argomento dal secolo XVI ad oggi. In uno di essi si legge:

« Il buon cristiano deve abituarsi a questo santo esercizio in ogni tempo e in ogni luogo. Al risveglio  rivolga subito lo sguardo dell’anima su Dio, parli e conversi con lui come il suo padre amato. Quando cammina per le strade tenga gli occhi del corpo  bassi e modesti elevando quelli dell’anima a Dio » 4).

Si distingue il « pensiero della presenza di Dio » dal « sentimento della sua presenza »: il primo dipende da noi, il secondo è invece dono di grazia che non dipende da noi. (Si sa che per san Gregorio Nisseno « il sentimento della presenza » di Dio, la aisthesis parousia, è quasi un sinonimo di esperienza mistica).

Si tratta di una visione rigidamente teocentrica che in alcuni autori si spinge fino al consiglio di « lasciare da parte la santa umanità di Cristo ». Santa Teresa d’Avila reagirà energicamente contro questa idea che riappare periodicamente da Origene in poi in seno al cristianesimo sia orientale che occidentale. Ma la spiritualità della presenza di Dio, anche dopo di lei, continuerà a essere rigidamente teocentrica, con tutti i problemi e le aporie che ne derivano, messe in luce dagli stessi autori che ne trattano (5).

Su questo punto il pensiero di san Paolo ci può aiutare a superare la difficoltà che ha portato al declino della spiritualità del presenza di Dio. Egli parla sempre di una presenza di Dio « in Cristo ». Una presenza irreversibile e insuperabile. Non c’è uno stadio della vita spirituale in cui si possa fare a meno di Cristo, o andare « oltre Cristo ». La vita cristiana è una « vita nascosta con Cristo in Dio » (Col 3,3). Questo cristocentrismo paolino non attenua l’orizzonte trinitario della fede ma lo esalta, perché per Paolo tutto il movimento parte dal Padre e ritorna al Padre, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. L’espressione « in Cristo » è intercambiabile, nei suoi scritti, con l’espressione « nello Spirito ».

Il bisogno di superare l’umanità di Cristo, per accedere direttamente al Logos eterno e alla divinità, nasceva da una scarsa considerazione della risurrezione di Cristo. Questa veniva vista nel suo significato apologetico, come prova della divinità di Gesù, e non abbastanza nel suo significato misterico, come inaugurazione della sua vita « secondo lo Spirito », grazie alla quale l’umanità di Cristo appare ormai nella sua condizione spirituale e dunque onnipresente e attuale.

Cosa ne deriva sul piano pratico? Che noi possiamo fare ogni cosa « in Cristo » e « con Cristo », sia che mangiamo, sia che dormiamo, sia che facciamo qualsiasi altra cosa, dice l’Apostolo (1 Cor 10,31). Il Risorto  non è presente solo perché lo pensiamo, ma è realmente accanto a noi; non siamo noi che dobbiamo, con il pensiero e la fantasia, riportarci alla sua vita terrena e rappresentarci gli episodi della sua vita (come ci si sforzava di fare nella meditazione dei « misteri della vita di Cristo »); è lui, il risorto, che viene verso di noi. Non siamo noi che, con l’immaginazione, dobbiamo diventare contemporanei di Cristo; è Cristo che si fa realmente nostro contemporaneo. « Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo ». (A proposito, perché non fare subito un atto di fede? Egli è qui, in questa cappella, più presente di quanto lo sia ciascuno di noi; cerca lo sguardo del nostro cuore e gioisce quando lo trova).

Una testo che riflette meravigliosamente questa visione della vita cristiana è la preghiera attribuita a san Patrizio: « Cristo con me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, Cristo in me! Cristo sotto di me, Cristo sopra di me, Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra! » (6)

Quale nuovo e più alto significato acquistano le parole di san Luigi Grignon de Montfort, se applichiamo allo « Spirito di Cristo » ciò che egli dice dello « spirito di Maria »:

« Dobbiamo abbandonarci allo Spirito di Cristo per essere mossi e guidati secondo il  suo volere. Dobbiamo metterci e restare fra le sue mani come uno strumento tra le mani di un operaio, come un liuto tra le mani di un abile suonatore. Dobbiamo perderci e abbandonarci in lui come pietra che si getta in mare. È possibile fare tutto ciò semplicemente e in un istante, con una sola occhiata interiore o un lieve movimento della volontà, o anche con qualche breve parola » (7).

5. Dimentico del passato

Concludiamo tornando al testo di Filippesi 3. San Paolo termina le sue « confessioni »  con una dichiarazione:

« Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Fil 3, 13-14).

« Dimentico del passato ». Quale passato? Quello di fariseo, di cui ha parlato prima? No, il passato di apostolo, nella Chiesa! Ora il guadagno da considerare perdita è un altro: è proprio l’aver già una volta considerato tutto una perdita per Cristo. Era naturale pensare: « Che coraggio, quel Paolo: abbandonare una carriera di rabbino così ben avviata per una oscura setta di galilei! E che lettere ha scritto! Quanti viaggi ha intrapreso, quante chiese fondato! »

L’Apostolo ha avvertito confusamente il pericolo mortale di rimettere tra sé e il Cristo una « propria giustizia » derivante dalle opere – questa volta le opere compiute per Cristo -, e ha reagito energicamente. « Io non ritengo -dice- di essere arrivato alla perfezione ». San Francesco d’Assisi, verso la fine della vita, tagliava corto a ogni tentazione di autocompiacenza, dicendo: « Cominciamo, fratelli, a servire il Signore, perché finora abbiamo fatto poco o niente » (8).

Questa è la conversione più necessaria a coloro che hanno già seguito Cristo e sono vissuti al suo servizio nella Chiesa. Una conversione tutta speciale, che non consiste nell’abbandonare il male, ma, in certo senso, nell’abbandonare il bene! Cioè nel distaccarsi da tutto ciò che si è fatto, ripetendo a se stessi, secondo il suggerimento di Cristo: « Siamo servi inutili; abbiamo fatto quanto dovevamo fare » (Lc 17,10).

Questo svuotarci le mani e le tasche di ogni pretesa, in spirito di povertà e umiltà, è il modo migliore per prepararci al Natale. Ce lo ricorda una simpatica leggenda natalizia che mi piace citare di nuovo. Narra che tra i pastori che accorsero la notte di Natale ad adorare il Bambino ce n’era uno tanto poverello che non aveva proprio nulla da offrire e si vergognava molto. Giunti alla grotta, tutti facevano a gara a offrire i loro doni. Maria non sapeva come fare per riceverli tutti, dovendo tenere in braccio il Bambino. Allora, vedendo il pastorello con le mani libere, prende e affida a lui Gesù. Avere le mani vuote fu la sua fortuna e, su un altro piano, sarà anche la nostra.

(1) J.-P. Sartre, Il diavolo e il buon dio, X,4 (Parigi, Gallimard 1951, p. 267.).

(2) F. Collins, The Language of God. A Scientist Presents Evidence for Belief, pp. 219-255.

(3) Cf.  M. Dupuis, Présence de Dieu, in D Spir. 12, coll. 2107-2136.

(4) F. Arias (+1605), cit. da Dupuis, col. 2111.

(5) Dupuis, cit., col 2121:  « Se l’onnipresenza di Dio non si distingue dalla sua essenza, l’esercizio della presenza di Dio non aggiunge al tradizionale tema del ricordo di Dio, se non un sforzo immaginativo ».

(6) « Christ with me, Christ before me, Christ behind me, Christ below me, Christ above me, Christ at my right, Christ at my left ».

(7) Cf. S. L. Grignon de Montfort, Trattato della vera devozione a Maria, nr. 257.259 (in Oeuvres complètes, Parigi 1966, pp. 660.661).

(8) Celano, Vita prima, 103 (Fonti Francescane, n. 500).

udienza 11 dicembre 2008: Benedetto XVI e gli insegnamenti sui sacramenti in San Paolo

dal sito:

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Benedetto XVI e gli insegnamenti sui sacramenti in San Paolo

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 11 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi nell’aula Paolo VI.

Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sui suoi insegnamenti riguardo ai sacramenti.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall’abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla Volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l’uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull’amore e sulla verità.

Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all’unico corpo dell’umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l’inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo.

Però dobbiamo essere ancora più concreti: questo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, come può diventare Spirito mio? La risposta è che ciò avviene in tre modi, intimamente connessi l’uno con l’altro. Il primo è questo: lo Spirito di Cristo bussa alle porte del mio cuore, mi tocca interiormente. Ma poiché la nuova umanità deve essere un vero corpo, poiché lo Spirito deve riunirci e realmente creare una comunità, poiché è caratteristico del nuovo inizio il superare le divisioni e creare l’aggregazione dei dispersi, questo Spirito di Cristo si serve di due elementi di aggregazione visibile: della Parola dell’annuncio e dei Sacramenti, particolarmente del Battesimo e dell’Eucaristia. Nella Lettera ai Romani, dice san Paolo: «Se con la tua bocca proclamerai: ‘Gesù è il Signore’, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (10, 9), entrerai cioè nella nuova storia, storia di vita e non di morte. Poi san Paolo continua: «Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?» (Rm 10, 14-15). In un successivo passo dice ancora: «La fede viene dall’ascolto» (Rm 10,17). La fede non è prodotto del nostro pensiero, della nostra riflessione, è qualcosa di nuovo che non possiamo inventare, ma solo ricevere come dono, come una novità prodotta da Dio. E la fede non viene dalla lettura, ma dall’ascolto. Non è una cosa soltanto interiore, ma una relazione con Qualcuno. Suppone un incontro con l’annuncio, suppone l’esistenza dell’altro che annuncia e crea comunione.

E finalmente l’annuncio: colui che annuncia non parla da sé, ma è inviato. Sta entro una struttura di missione che comincia con Gesù inviato dal Padre, passa agli apostoli – la parola apostoli significa «inviati» – e continua nel ministero, nelle missioni trasmesse dagli apostoli. Il nuovo tessuto della storia appare in questa struttura delle missioni, nella quale sentiamo ultimamente parlare Dio stesso, la sua Parola personale, il Figlio parla con noi, arriva fino a noi. La Parola si è fatta carne, Gesù, per creare realmente una nuova umanità. Perciò la parola dell’annuncio diventa Sacramento nel Battesimo, che è rinascita dall’acqua e dallo Spirito, come dirà san Giovanni. Nel sesto capitolo della Lettera ai Romani san Paolo parla in modo molto profondo del Battesimo. Abbiamo sentito il testo. Ma forse è utile ripeterlo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (6,3-4).

In questa catechesi, naturalmente, non posso entrare in una interpretazione dettagliata di questo testo non facile. Vorrei brevemente notare solo tre cose. La prima: «siamo stati battezzati» è un passivo. Nessun può battezzare se stesso, ha bisogno dell’altro. Nessuno può farsi cristiano da se stesso. Divenire cristiani è un processo passivo. Solo da un altro possiamo essere fatti cristiani. E questo « altro » che ci fa cristiani, ci dà il dono della fede, è in prima istanza la comunità dei credenti, la Chiesa. Dalla Chiesa riceviamo la fede, il Battesimo. Senza lasciarci formare da questa comunità non diventiamo cristiani. Un cristianesimo autonomo, autoprodotto, è una contraddizione in sé. In prima istanza, questo altro è la comunità dei credenti, la Chiesa, ma in seconda istanza anche questa comunità non agisce da sé, secondo le proprie idee e desideri. Anche la comunità vive nello stesso processo passivo: solo Cristo può costituire la Chiesa. Cristo è il vero donatore dei Sacramenti. Questo è il primo punto: nessuno battezza se stesso, nessuno fa se stesso cristiano. Cristiani lo diventiamo.

La seconda cosa è questa: il Battesimo è più che un lavaggio. È morte e risurrezione. Paolo stesso parlando nella Lettera ai Galati della svolta della sua vita realizzatasi nell’incontro con Cristo risorto, la descrive con la parola: sono morto. Comincia in quel momento realmente una nuova vita. Divenire cristiani è più che un’operazione cosmetica, che aggiungerebbe qualche cosa di bello a un’esistenza già più o meno completa. È un nuovo inizio, è rinascita: morte e risurrezione. Ovviamente nella risurrezione riemerge quanto era buono nell’esistenza precedente.

La terza cosa è: la materia fa parte del Sacramento. Il cristianesimo non è una realtà puramente spirituale. Implica il corpo. Implica il cosmo. Si estende verso la nuova terra e i nuovi cieli. Ritorniamo all’ultima parola del testo di san Paolo: così – dice – possiamo « camminare in una nuova vita ». Elemento di un esame di coscienza per noi tutti: camminare in una nuova vita. Questo per il Battesimo.

Veniamo adesso al Sacramento dell’Eucaristia. Ho già mostrato in altre catechesi con quale profondo rispetto san Paolo trasmetta verbalmente la tradizione sull’Eucaristia che ha ricevuto dagli stessi testimoni dell’ultima notte. Trasmette queste parole come un prezioso tesoro affidato alla sua fedeltà. E così sentiamo in queste parole realmente i testimoni dell’ultima notte. Sentiamo le parole dell’Apostolo: «Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e dopo aver reso grazie lo spezzò e disse: questo è il mio Corpo che è per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo dopo aver cenato prese anche il calice dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me» (1 Cor 11,23-25). È un testo inesauribile. Anche qui, in questa catechesi, solo due brevi osservazioni. Paolo trasmette le parole del Signore sul calice così: questo calice è «la nuova alleanza nel mio sangue». In queste parole si nasconde un accenno a due testi fondamentali dell’Antico Testamento. Il primo accenno è alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia. Gesù dice ai discepoli e dice a noi: adesso, in questa ora, con me e con la mia morte si realizza la nuova alleanza; dal mio sangue comincia nel mondo questa nuova storia dell’umanità. Ma è presente, in queste parole, anche un accenno al momento dell’alleanza del Sinai, dove Mosè aveva detto: « Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di queste parole » (Es 24,8). Là si trattava di sangue di animali. Il sangue degli animali poteva essere solo espressione di un desiderio, attesa del vero sacrificio, del vero culto. Col dono del calice il Signore ci dona il vero sacrificio. L’unico vero sacrificio è l’amore del Figlio. Col dono di questo amore, amore eterno, il mondo entra nella nuova alleanza. Celebrare l’Eucaristia significa che Cristo ci dà se stesso, il suo amore, per conformarci a se stesso e per creare così il mondo nuovo.

Il secondo importante aspetto della dottrina sull’Eucaristia appare nella stessa prima Lettera ai Corinzi dove san Paolo dice: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (10, 16-17). In queste parole appare ugualmente il carattere personale e il carattere sociale del Sacramento dell’Eucaristia. Cristo si unisce personalmente ad ognuno di noi, ma lo stesso Cristo si unisce anche con l’uomo e con la donna accanto a me. E il pane è per me e anche per l’altro. Così Cristo ci unisce tutti a sé e unisce tutti noi, l’uno con l’altro. Riceviamo nella comunione Cristo. Ma Cristo si unisce ugualmente con il mio prossimo: Cristo e il prossimo sono inseparabili nell’Eucaristia. E così noi tutti siamo un solo pane, un solo corpo. Un’Eucaristia senza solidarietà con gli altri è un’Eucaristia abusata. E qui siamo anche alla radice e nello stesso tempo al centro della dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo, del Cristo risorto.

Vediamo anche tutto il realismo di questa dottrina. Cristo ci dà nell’Eucaristia il suo corpo, dà se stesso nel suo corpo e così ci fa suo corpo, ci unisce al suo corpo risorto. Se l’uomo mangia pane normale, questo pane nel processo della digestione diventa parte del suo corpo, trasformato in sostanza di vita umana. Ma nella santa Comunione si realizza il processo inverso. Cristo, il Signore, ci assimila a sé, ci introduce nel suo Corpo glorioso e così noi tutti insieme diventiamo Corpo suo. Chi legge solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi e il cap. 12 della Lettera ai Romani potrebbe pensare che la parola sul Corpo di Cristo come organismo dei carismi sia solo una specie di parabola sociologico-teologica. Realmente nella politologia romana questa parabola del corpo con diverse membra che formano una unità era usata per lo Stato stesso, per dire che lo Stato è un organismo nel quale ognuno ha la sua funzione, la molteplicità e diversità delle funzioni formano un corpo e ognuno ha il suo posto. Leggendo solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi si potrebbe pensare che Paolo si limiti a trasferire soltanto questo alla Chiesa, che anche qui si tratti solo di una sociologia della Chiesa. Ma tenendo presente questo capitolo decimo vediamo che il realismo della Chiesa è ben altro, molto più profondo e vero di quello di uno Stato-organismo. Perché realmente Cristo dà il suo corpo e ci fa suo corpo. Diventiamo realmente uniti col corpo risorto di Cristo, e così uniti l’uno con l’altro. La Chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è semplicemente un’organizzazione, ma un vero organismo.

Alla fine, solo una brevissima parola sul Sacramento del matrimonio. Nella Lettera ai Corinzi si trovano solo alcuni accenni, mentre la Lettera agli Efesini ha realmente sviluppato una profonda teologia del Matrimonio. Paolo definisce qui il Matrimonio «mistero grande». Lo dice «in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa» (5, 32). Va rilevata in questo passo una reciprocità che si configura in una dimensione verticale. La sottomissione vicendevole deve adottare il linguaggio dell’amore, che ha il suo modello nell’amore di Cristo verso la Chiesa. Questo rapporto Cristo-Chiesa rende primario l’aspetto teologale dell’amore matrimoniale, esalta la relazione affettiva tra gli sposi. Un autentico matrimonio sarà ben vissuto se nella costante crescita umana e affettiva si sforzerà di restare sempre legato all’efficacia della Parola e al significato del Battesimo. Cristo ha santificato la Chiesa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua, accompagnato dalla Parola. La partecipazione al corpo e sangue del Signore non fa altro che cementare, oltre che visibilizzare, una unione resa per grazia indissolubile.

E alla fine sentiamo la parola di san Paolo ai Filippesi: « Il Signore è vicino » (Fil 4,5). Mi sembra che abbiamo capito che, mediante la Parola e mediante i Sacramenti, in tutta la nostra vita il Signore è vicino. Preghiamolo affinché possiamo sempre più essere toccati nell’intimo del nostro essere da questa sua vicinanza, affinché nasca la gioia – quella gioia che nasce quando Gesù è realmente vicino.

Clemente d’Alessandria: Giovanni Battista ci esorta alla salvezza

dal sito:  

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=12/12/2008#

Clemente d’Alessandria (150-circa 215), teologo
Protrettico ai greci, c. 1 ; SC 2bis, 63

Giovanni Battista ci esorta alla salvezza

Non è assurdo, o amici, che, mentre Dio sempre ci esorta alla virtù, noi, invece, rifiutiamo l’aiuto e rimandiamo la salvezza? Non ci esorta dunque alla salvezza anche Giovanni e non è egli interamente una voce esortatrice? Interroghiamo dunque lui stesso: «Chi sei? di quale paese? » Non dirà di essere Elia, negherà di essere Cristo, ma confesserà di essere voce gridante nel deserto (Gv 1,20s). Chi è dunque Giovanni? Per abbracciarlo in una immagine, sia lecito dirlo « una voce del Verbo esortatrice, gridante nel deserto »…  » Fate diritte le vie del Signore  » (Mt 1,3). Precursore è Giovanni e la sua voce è precorritrice del Verbo, voce incitatrice, che prepara alla salvezza, voce esortatrice alla eredità dei cieli, voce per la quale la terra «sterile e deserta finisce di essere infeconda» (cfr Is 54,1).

Questa fertilità secondo me la predisse la voce dell’Angelo; precorritrice del Signore era anche quella, la quale dava la buona novella alla donna sterile (Lc 1,19), come Giovanni al deserto. Per questa voce del Verbo, dunque, la donna sterile diventa feconda di figli e la terra deserta produce frutti. Le due voci precorritrici del Signore, quella dell’Angelo e quella di Giovanni, vogliono significare, secondo me, la salvezza riposta in serbo per noi, cosicché, dopo l’apparizione di questo Verbo, noi riportiamo il frutto della fecondità, cioè la vita eterna.

Paolo : « L’enfant terrible del cristianesimo (Daniel Marguerat) »

DANIEL MARGUERAT is Professor of New Testament Studies at the Faculty of Theology of the University of Lausanne, Switzerland. –

Pastore della Chiesa evangelica (credo, non sono riuscita a trovare altre notizie su di lui neanche in francese e inglese), dal sito:

http://www.dimensionesperanza.it/modules/xfsection/article.php?articleid=4665

Bibbia: L’enfant terrible del cristianesimo (Daniel Marguerat)  
Autore: Fausto
Pubblicato: 2008/11/4
 

L’enfant terrible del cristianesimo
di Daniel Marguerat *

In un recente, illuminante libretto, Daniel Marguerat ritorna sulla modernità di Paolo, l’enfant terrible del cristianesimo. Spirito dottrinario, tono ruvido, antifemminismo… non avrebbe sviato il puro messaggio di amore di Gesù in una opprimente dottrina del peccato? Già durante la sua vita, questo rinnegamento del giudaismo irritava. Oggi, molti cristiani lo hanno accantonato, e credono senza Paolo o malgrado lui. Chi legge ancora la corrispondenza di questo apostolo poco amato? Chi coglie l’importanza della “giustificazione secondo fede” o della “salvezza al di fuori delle opere della Legge”? Tuttavia, senza di lui, senza il suo genio a formulare le verità essenziali del cristianesimo, la cristianità sarebbe rimasta un’oscure setta. Senza di lui, duemila anni fa, il messaggio di Cristo non avrebbe infiammato il mondo intero. Se si vuole comprendere la rivoluzione che ha rappresentato nel I secolo lo slancio della fede cristiana, non si può evitare di leggere, e di voler comprendere, questo gigante definito talora il “fondatore del cristianesimo”. Non senza fondamento: egli fu, più di chiunque altro, fondatore di comunità.
Tra Saulo di Tarso (il suo nome aramaico) e Gesù di Nazareth vi è ben poco in comune. Come spiegare allora che l’uno è stato preso per l’altro? Gesù è un ebreo della campagna palestinese, di professione falegname, figlio del popolo e amico di peccatori. Il suo messaggio si rivolge agli uomini e alle donne di Israele. Il suo ministero si è limitato alla Galilea, con un breve sprazzo finale a Gerusalemme. Saulo è un intellettuale della diaspora, nato a Tarso vicino ad Antiochia. Uomo di città e di cultura. Il suo impegno netto nel movimento farisaico lo ha introdotto nell’èlite religiosa del giudaismo del tempo. Forse fu allievo del grande rabbi Gamaliele (At 22,3). Ad ogni modo, la sua formazione all’esegesi rabbinica fu quella di un allievo brillante, capace di maneggiare la Scrittura secondo le regole dei maestri. La pratica del gezera shava, consistente nell’accostare due citazioni per interpretare l’una grazie all’altra, non ha per lui segreti (esempio: Gal 3,l0 e 12). Anche sostenere una parola della Torà con una citazione dei profeti è altrettanto comune in lui come nei rabbini della miglior tradizione. D’altra parte, le più recenti ricerche sul suo modo di condurre l’argomentazione mostrano che l’apostolo delle Genti è esperto nella pratica della retorica greco-romana, alla pari di un Cicerone o di un Quintiliano. Nulla di sorprendente, se si sa che la città di Tarso ospitava un’apprezzata scuola stoica: il padre di Paolo si fece un punto d’onore di mandarvi il figlio. Attraverso l’apprendimento della retorica passava una cultura raffinata.
Le sottigliezze di una doppia cultura

Queste due componenti della cultura di Paolo di Tarso spiegano la difficoltà di comprenderlo oggi; il suo stile, la sua logica, sono quelli di un uomo che suona costantemente su due tastiere: lo stile figurato, analogico del rabbi, e l’argomentazione lineare del retore romano (con introduzione, tesi, dimostrazione e perorazione). L’estrema difficoltà, per gli esegeti, consiste proprio nel tenere collegate le due modalità della sua riflessione, senza farle pendere completamente dal lato della sottigliezza rabbinica o dal lato del rigore dialettico. Ma il confronto con Gesù di Nazaret ripropone il problema: come capire che Paolo, l’intellettuale fariseo di alto livello, sia stato conquistato dal destino dell’uomo di Nazaret? La risposta va cercata nel folgorante sconvolgimento che è la «conversione» di Paolo sulla strada di Damasco. La si fa risalire all’incirca all’anno 32, cioè due anni dopo la morte di Gesù. La fede cristiana, Paolo non l’ha scoperta al suo tavolo di lavoro. Neppure nella profondità della meditazione. All’interno della sua pratica, all’interno della sua militanza, Paolo è stato fermato da Dio. Bloccato nel suo slancio. Ma che cosa è accaduto sulla via di Damasco perché Paolo ne esca stordito, demolito, smarrito? L’uomo si manterrà sempre riservato su questo punto. Quel che certo, è che, un giorno, le basi su cui aveva costruito la sua vita gli sono improvvisamente venute meno. Ne resta traccia in un passaggio autobiografico della lettera ai Filippesi. Paolo inizia elencando il suo impressionante albero genealogico-religioso: «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa: irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge (Fil 3,5-6). Non si potrebbe pretendere maggiore garanzia di appartenenza ebraica! L’eccellenza dell’uomo di Tarso in materia di pietà legale gli permetteva di definirsi, con fierezza, «irreprensibile». Questo forte radicamento nella Torà lo aveva condotto, con tutta la tradizione farisaica, a rifiutare qualunque credito alla fede cristiana in un Messia crocifisso. Che il Dio onnipotente avesse qualche cosa in comune con il corpo di Gesù appeso al legno della croce non poteva essere che una ridicola superstizione, pericolosa e sovversiva. «L’appeso è una maledizione di Dio»: questa frase del Deuteronomio (21,23) era citata come un anatema contro questi eretici. Si può confondere la grandezza divina con la fine miserabile di un Galileo, giudicato e condannato come blasfemo? È questo il motivo per cui, nella sua logica estremistica (la sua personalità lo porta a questo), Paolo si era ripromesso di difendere l’onore di Dio punendo quelli che iniziavano ad essere chiamati «cristiani». (Gal 1,13).

Fallimento della religione

Damasco è la scoperta di un fallimento. Non lo scacco di un uomo che non sarebbe stato capace di adempiere ai precetti della Torà. Al contrario: «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge» (Fil 3,6). È lo scacco della Legge o, più esattamente, lo scacco della fede nella Legge che si presenta a Paolo come una folgorazione. Ecco dove conduce la Torà: a mettere in croce il Messia. Damasco è questo volgersi dello sguardo di Paolo sulla croce, che lo porta a capire come, al culmine dell’impegno per Dio, al culmine della pietà, l’uomo costruisca una croce per il Figlio. Paolo non determina lo scacco del giudaismo, come se altre credenze potessero meglio cogliere il mistero di Dio. Riflettendo su questo problema all’inizio della lettera ai Romani (1,18-3,20), Paolo giunge alla conclusione che «l’ebreo come il greco» falliscono nel loro tentativo di conoscere Dio. Paolo segna lo scacco di ogni religione. Non, una volta di più, attraverso il raziocinio, ma per averlo vissuto nella sua personale esperienza di vita. Ogni religione fallisce nel momento in cui fa nascere nell’uomo l’illusione di poter costruire il proprio valore davanti a Dio. Che si tratti di ammansire Dio attraverso l’osservanza della Torà (l’indagine dell’ebreo) o che si tratti di avvicinarsi a Dio attraverso la ricerca della sapienza (l’indagine del greco), l’errore è lo stesso: in entrambi i casi la pietà diventa un modo di catturare il divino per accattivarselo (I Cor 1,18-25). È il motivo per cui, dirà Paolo ai Corinzi, Dio ha scelto di salvare gli uomini attraverso il messaggio insensato, risibile, della croce: «E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1,22-23).

Alla sconfitta della religione che tenta di ctturare Dio, Paolo oppone la pura gratuità della grazia.

Dio di tutti e di ciascuno

Non si comprende nulla del pensiero di Paolo se non si coglie a quale punto la sua immagine di Dio si è trovata proiettata: lo scorge all’opera nella sua fragilità. Lo credeva tirannico, lo scopre solidale. Lo pensava lontano, ed eccolo presente in ogni sofferenza. Dio non si lascia scoprire che da parte di coloro che abbandonano l’immagine del dio tirannico e si lasciano «giustificare», cioè accogliere, sulla sola base della loro fede in Lui.

Con Paolo inizia questa scoperta, immensa nella storia dell’umanità, del valore di tutti e di ciascuno. Che ogni uomo riceva da Dio un valore insostituibile, nessuno l’aveva affermato con altrettanta forza. Che l’essere umano abbia un valore che non dipende né dalla sua età, né dal suo sesso, né dal suo denaro, né dalla sua pietà, né dal suo ruolo nella società. Che ogni essere sia apprezzato da Dio indipendentemente dalla sua morale o dalle sue (buone) intenzioni, ecco la convinzione che brucia nel centro della teologia di Paolo. E, nelle categorie farisaiche della retribuzione, Paolo dirà: Dio giustifica ognuno senza badare alla sua osservanza della Legge. Egli concede la vita all’uomo «senza le opere della Legge» (Rm 3,21-28).

Di questa idea si alimenterà un concetto che segnerà profondamente l’Occidente cristiano; il concetto di individuo. Sotto l’influsso del pensiero paolino, l’umanità accoglie questa idea che l’individuo, sono qualsiasi latitudine viva, ha lo stesso valore. La Rivoluzione francese aggiungerà: deve godere degli stessi diritti.

Un problema di libertà

La doppia cultura di Saulo di Tarso (greco-romana ed ebraica) gli permette sintesi folgoranti, di cui la cristianità si alimenterà per crescere. La sconfitta della religione è una prima sintesi. L’approccio paolino al problema della libertà ne è un’altra. Gli stoici (ad esempio Epitteto o Seneca) ponevano con insistenza la questione della libertà umana. L’uomo è libero nelle sue scelte? Governa la propria vita? Alla constatazione negativa, gli stoici aggiungevano una risposta: dominare le passioni permette all’uomo di avvicinarsi alla libertà. Paolo riprende la questione, ma la sua constatazione è più radicale: non solo l’uomo non è libero, ma non è in grado di riconquistare la sua libertà attraverso un progetto di autocontrollo. Il peccato – nessuno nel Nuovo Testamento penserà il peccato con maggiore profondità di Paolo – aliena l’uomo e lo scaglia contro Dio. La sola via d’uscita per l’essere umano è di essere liberato dal di fuori, dal momento che non può farlo da solo. Il cap. 8 della Lettera ai Romani descrive questo lavorio dello Spirito nel credente, che, liberandolo dalla costrizione di costruire la sua propria salvezza, lo libera dalla preoccupazione di sé e lo apre alla cura di un altro.

Distruttore della Legge?

Rifiutando la Legge come via di salvezza, Paolo si è attirato l’incomprensione e la collera dei suoi antichi correligionari. Malgrado i suoi dinieghi («la Legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento», Rm 7,12), l’apostolo delle Genti non si libererà mai dal sospetto di essere un trasgressore della Legge. All’intento del nascente cristianesimo, questo punto costituisce una grande divergenza tra Paolo e il giudeo-cristianesimo di Gerusalemme dominato dalla figura di Giacomo, fratello del Signore. In realtà, se Paolo nega alla Torà la capacità di essere strumento di salvezza (ormai conta solo la fede), Paolo non rifiuta la Legge quando si tratta di segnalare la fedeltà di vita cui sono chiamati i credenti. Arriva anche a dire che «la giustizia della Legge si compie in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito» (Rm 8,4). In pratica, il credente, non più preoccupato per sé, può aprirsi all’amore dell’altro, cosa che costituisce – per Paolo come per Gesù – il centro della Legge.

Se il rimprovero di distruggere la Legge non è giustificato per quanto riguarda Paolo, il suo discorso sul fallimento della religione (compresa quella ebraica) poneva l’apostolo davanti ad una via senza uscita: Dio, dando già da millenni, la Legge ad Israele, avrebbe sbagliato?

Perché il giudaismo?

La storia del popolo eletto sarebbe stata una storia inutile? Nei capp. 9-11 della Lettera ai Romani di Paolo, costretto ad affrontare la questione, propone una riflessione fondamentale sul destino di Israele. Essa rimane essenziale su quello che noi potremmo (e dovremmo) pensare oggi delle relazioni tra cristianesimo e giudaismo. La formula della salvezza offerta a «chiunque crede» fonda in realtà l’universalità della grazia, ma, contemporaneamente, sottrae ogni consistenza alla particolarità di Israele. Se il cristianesimo è la religione del Dio universale, perché il giudaismo? Seguiamo da vicino le argomentazioni di Rm 9-11. Paolo comincia col constatare il rifiuto opposto da Israele al Messia: gli ebrei non vogliono il Cristo (Rm 9), La parola di Dio è sconfitta? No, Dio indurisce chi vuole, dice Paolo, ed apre il cuore a chi vuole. Questo non impedisce, continua Paolo (Rm 10), che la maggioranza degli ebrei si sia chiusa alla parola del Vangelo. Essi hanno sentito la notizia, ma non vi hanno creduto. Dio avrebbe dunque rifiutato il suo popolo? Il semplice enunciato della questione fa sobbalzare Paolo (Rm 11): assolutamente no! In realtà, la storia di questo popolo ha sempre conosciuto l’indurimento della maggioranza e la fedeltà di un piccolo resto. I cristiani non ebrei corrispondono oggi a questa logica del piccolo resto: essi credono, mentre la maggior parte di Israele rifiuta.

L’enunciato di un mistero

Giunto a questo punto, Paolo sfiora la contraddizione: da un lato Israele è colpevole di chiudersi al Vangelo; dall’altra, fede e indurimento del cuore sono opera di Dio. A quale conclusione arrivare? Da questa scomoda posizione, l’apostolo fa la professione di un mistero: «Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che non saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» (Rm 11,25-26).

Conclusione sbalorditiva! Al pericolo di cadere in contraddizione, Paolo sfugge enunciando un mistero teologico, cioè di una verità che non è data come la conclusione di un ragionamento, ma come una rivelazione. Il suo contenuto è chiaro: alla fine dei tempi, Israele sarà salvato. In altri termini Paolo ammette Israele ai beneficio della giustificazione per fede (quello stesso messaggio che Israele rifiuta). Se è vero che Dio salva per grazia, e senza tenere una contabilità degli sforzi dell’uomo per soddisfarlo, allora non terrà conto del rifiuto che Israele oppone al Messia. La grazia vale anche per il popolo eletto. Attraverso questo mistero, Paolo perviene a rendere giustizia da un lato alla scelta della maggioranza degli ebrei, che rompe col Cristianesimo e non vuole questo Messia. Egli prende dall’altro in considerazione la fedeltà di Dio alle sue promesse: Dio non rinnega la sua parola, nè i suoi. L’apostolo lascia così aperto l’avvenire di Israele, come una storia che deve compiersi tra Dio e il suo popolo eletto, e non riguarda che loro due. Se i cristiani hanno ragione di considerarsi beneficiari della grazia, il destino del popolo ebraico non li riguarda. Questo destino appartiene, giustamente, ad un mistero che si è già avviato tra Abramo e Dio. A questa inviolabile tenerezza di Dio per Israele, nessuno potrebbe attentare. Ma questo dovuto annullamento davanti alla grazia sovrana di Dio non significa per Paolo essere ridotto al silenzio: nel corso della sua intera corrispondenza, egli non cesserà di testimoniare che un dialogo esigente e serrato con il giudaismo è indispensabile alla ricerca della propria identità da parte del cristianesimo.

* Professore di Nuovo Testamento – Facoltà di Teologia, Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia n. 53)

Beato Guerrico d’Igny : « Giovanni era una lampada che arde e risplende » (Gv 5,35)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=12/11/2008#

Beato Guerrico d’Igny (circa 1080-1157), abate cistercense
3e discorso per la Natività di San Giovanni Battista, 1-2 ; PL 185, 169

« Giovanni era una lampada che arde e risplende » (Gv 5,35)

Quando la sovrana giustizia dice a Noè: «Ti ho visto giusto dinanzi a me» (Gen 7,1), era un grande elogio della sua giustizia. Quando Dio assicura ad Abramo che grazie a lui le sue promesse si sarebbero compiute, è segno di un grandissimo merito… Quale gloria per Mosè, quando Dio brucia di zelo per difenderlo e confondere i suoi nemici (cfr Nm 12,65)… E cosa dire di Davide nel quale il Signore si compiace di aver trovato «un uomo secondo il suo cuore» (1 Sam 13,14).

Eppure, per quanto sia stata la grandezza di questi uomini, né tra loro, né tra gli altri «nati di donna, è sorto uno più grande di Giovanni Battista», secondo la testimonianza del Figlio della Vergine. Certo ogni stella differisce da un’altra nello splendore (1 Cor 15,41), e nel coro dei santi astri che hanno illuminato la notte di questo mondo prima del sorgere del sole vero, alcuni hanno brillato di un chiarore mirable. Eppure tra loro non è sorto uno più grande e più risplendente di quella stella del mattino, quella lampada che arde e risplende, preparata da Dio per il suo Cristo (cfr Sal 131,17). Prima luce del mattino, stella dell’aurora, precursore del Sole, egli annuncia ai mortali l’imminenza del giorno e grida a coloro che dormono «nelle tenebre e l’ombra della morte» (Lc 1,79): «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2). Come se dicesse: «La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (Rm 13,12). «Svégliati, o tu che dormi, déstati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14).

Quelle tre o quattro cose forti che il sinodo sulla « Parola di Dio » ha lasciato in eredità

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/210128

Quelle tre o quattro cose forti che il sinodo sulla « Parola di Dio » ha lasciato in eredità

La prima è che il cristianesimo non è una « religione del libro » ma si identifica in una persona. La seconda è che la Bibbia non è solo passato ma è anche presente e futuro. La terza è che l’esegesi non può fare a meno della teologia, e viceversa… Il bilancio del sinodo nel taccuino di un osservatore speciale

di Sandro Magister 

ROMA, 9 dicembre 2008 – A sette settimane dalla sua chiusura, il sinodo dei vescovi tenuto a Roma in ottobre su « La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa » sembra quasi non aver lasciato traccia.

Le 55 proposizioni finali sono state consegnate al papa e provvederà lui a darvi corso, nell’esortazione postsinodale che egli promulgherà tra un anno o anche più.

Quanto al messaggio rivolto dal sinodo al « popolo di Dio » al termine dell’assise, è caduto subito nel dimenticatoio. A differenza dei messaggi finali dei precedenti sinodi, questo era scritto con stile più comunicativo. Tradiva la mano sapiente del suo principale estensore, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura e biblista di fama mondiale. Ma la sua lunghezza spropositata ne ha reso difficile il rilancio da parte dei media cattolici di tutto il mondo. E di conseguenza ha impedito che divenisse oggetto di lettura e di riflessione da parte di un consistente numero di vescovi, preti e fedeli.

Ciò non toglie, però, che il sinodo che si è tenuto lo scorso ottobre sulla Parola di Dio possa avere effetti importanti e di lunga durata sulla vita della Chiesa. A condizione che i circa 250 vescovi che vi hanno partecipato sappiano raccoglierne le indicazioni e parteciparle ai rispettivi episcopati e Chiese nazionali.

Ma, appunto, quali sono le indicazioni maggiori che il sinodo ha dato? Quali le linee maestre lungo le quali tradurlo in pratica?

Sul sinodo si è scritto molto. Ma rare sono state le valutazioni sintetiche. Qui di seguito ne è riportata una delle più interessanti e acute. È apparsa su « L’Osservatore Romano » del 27 novembre ed è stata scritta non da un padre sinodale ma da un osservatore esterno, un professore di teologia del Boston College, sacerdote della diocesi di New York, padre Robert Imbelli.

Per tutta la durata del sinodo padre Imbelli ha alloggiato, a Roma, al Collegio Capranica, avendo modo di incontrare quotidianamente vari padri sinodali, e di seguirne i lavori.

Il 14 ottobre egli ha avuto anche la possibilità di entrare nell’aula del sinodo e di assistere a una seduta. Per fortunata combinazione, quello fu il giorno in cui Benedetto XVI prese la parola, pronunciando un intervento di straordinaria importanza.

Ecco dunque che cosa il nostro osservatore ha ricavato dal suo soggiorno romano:

Riflessioni sul sinodo

di Robert Imbelli

Godendo di un anno sabbatico come docente di teologia al Boston College, ho voluto essere presente a Roma durante il sinodo dei vescovi dedicato a un più profondo apprezzamento e a una rinnovata affermazione della « Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa ». Pochi altri argomenti, infatti, sono così fondamentali dal punto di vista teologico e pertinenti da quello pastorale. [...]

La mia prima forte impressione è che il sinodo sia stato una profonda esperienza ecclesiale, in primo luogo, com’è ovvio, per i partecipanti, ma sperabilmente, tramite loro e i resoconti dei media, per l’intera Chiesa cattolica. Vescovi e teologi, laici e preti, donne e uomini, come pure rappresentanti di altre comunità cristiane hanno condiviso tre intense settimane. Si sono reciprocamente arricchiti attraverso le loro esperienze, idee, opinioni e interessi. Lo hanno fatto formalmente con dichiarazioni e dibattiti svoltisi in gruppi linguistici più piccoli. Tuttavia lo hanno fatto anche in maniera informale durante le pause per il caffè o i pasti. La Parola di Dio si è riflessa nelle numerose parole della famiglia umana, mostrando la sua variegata ricchezza e forza trasformatrice: « suaviter et fortiter »

Una delle idee più cruciali emerse nel corso del sinodo è stata la necessità di comprendere le multiformi dimensioni della Parola di Dio. Nel linguaggio dei teologi questo è un concetto « analogo ». La Parola di Dio non si può semplicemente identificare con le Sacre Scritture. Queste sono le testimoni privilegiate della Parola di Dio, ma quest’ultima trascende persino la sua incarnazione biblica.

Infatti, in definitiva, la Parola di Dio è una Persona. È Gesù Cristo stesso l’incarnazione piena e definitiva della Parola di Dio. A questo proposito nessun verso biblico è più importante di questo del Vangelo di Giovanni: « E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi » (1, 14). In Gesù Cristo, nella sua vita, morte e resurrezione, la Rivelazione di Dio trova la sua espressione perfetta e ottiene la riconciliazione del mondo.

Significativamente, questo riconoscimento nutrito di fede implica che il cristianesimo può essere definito solo impropriamente una « religione del libro ». Per quanto la testimonianza biblica di Gesù sia preziosa e indispensabile, il cristianesimo è più precisamente la « religione della persona »: la persona di Gesù Cristo che chiama tutti alla comunione personale col Padre, attraverso lui.

Un’ulteriore conseguenza, rilevata da numerosi vescovi, è che Gesù Cristo offre ai cristiani la « chiave ermeneutica » per comprendere le Scritture. La Bibbia non è una raccolta disparata di libri del mondo antico. Essa trova in Gesù il suo « principium »: il suo principio interpretativo perché, in quanto Parola di Dio, egli è anche la sua origine e il suo obiettivo.

Dalla « relatio » di apertura del cardinale Ouellet, passando per l’intervento del papa, fino alle proposizioni conclusive presentate al Santo Padre, questo riconoscimento ha portato a insistere sulla necessità di utilizzare vari metodi di interpretazione delle Scritture. Il metodo cosiddetto storico-critico è indispensabile, perché la Parola di Dio è veramente entrata nella storia umana: nata durante il regno di Cesare Augusto e crocifissa sotto Ponzio Pilato. Come ha affermato il Santo Padre: « La storia della salvezza non è mitologia, ma vera storia, ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica ».

Per lo stesso motivo un metodo esclusivamente storico-critico presenta forti limiti. La Parola di Dio, alla quale la Bibbia reca testimonianza, chiaramente trascende la dimensione storica per accogliere il piano di Dio per il mondo. La Bibbia non è solo relegata al passato, ma sfida il presente e apre a un compimento futuro.

Quindi l’approccio storico-critico deve essere accompagnato da un approccio teologico-spirituale che affermi l’unità delle Scritture e riconosca che, attraverso il mistero pasquale di Cristo, lo Spirito Santo si è effuso ed ha avuto inizio la nuova creazione.

Di conseguenza, il contesto proprio e privilegiato per ascoltare la Parola di Dio è la liturgia della Chiesa, in special modo l’Eucaristia. In essa si compie l’unità dei Testamenti e si celebra la presenza del Cristo vivo, che svela il significato delle Scritture. In essa diviene chiaro che è in seno alla comunità di fede e alla sua tradizione che la Parola di Dio continua a nutrire il popolo di Dio in ogni epoca fino al ritorno del Signore nella gloria.

Da questo punto di vista il sinodo ci ha lanciato due sfide urgenti. La prima è che tutti i membri della Chiesa sono chiamati ad appropriarsi in modo disciplinato della Parola di Dio nella loro vita quotidiana, facendosi da essa guidare e sostenere. Da qui sono derivate le frequenti esortazioni del sinodo allo sviluppo e alla diffusione di una lettura spirituale della Bibbia che vada oltre il nome generico di « lectio divina ». Sebbene siano necessari modalità e metodi differenti per soddisfare le esigenze dei diversi interlocutori e delle diverse situazioni culturali, un requisito permanente è la necessità per tutti, soprattutto per quanti sono immersi in culture occidentali spesso frenetiche, di acquisire familiarità con il silenzio. Solo con un silenzio vigile possiamo udire la Parola di Dio con rinnovato vigore.

La seconda sfida è il bisogno urgente di compiere sforzi creativi per ricreare i vincoli fra esegesi e teologia sistematica, oppure, più concretamente, fra esegeti e teologi. Questo è particolarmente difficile nel contesto attuale delle università, così protese a una ricerca specialistica che spesso separa invece di unire. Ciononostante, si tratta di un imperativo. Come afferma il Santo Padre nel suo intervento al sinodo: « Dove l’esegesi non è teologica, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento ».

* * *

Un altro argomento che ha suscitato grande interesse al sinodo è stato quello della predicazione. I vescovi sanno bene che la Parola di Dio deve essere spezzata e condivisa con il popolo di Dio, proprio come il pane eucaristico. È evidente che ciò assume forme diverse secondo l’età e la formazione degli uditori, ma una caratteristica comune che scaturisce dalla meditazione sulla Parola di Dio nella sua realtà trascendente è che le omelie dovrebbero essere « mistagogiche », vale a dire condurre l’assemblea a un incontro vivificante con Gesù Cristo, vera Parola incarnata.

Penso che il Papa stesso offra una guida preziosa all’arte di questa predicazione mistagogica. Le sue omelie, così attente alla situazione concreta e alle sensibilità di coloro a cui si rivolgono, cercano sempre di promuovere un rinnovato apprezzamento dell’altezza, dell’ampiezza, della lunghezza e della profondità dell’amore di Cristo per il suo corpo, la Chiesa, e, attraverso di essa, per il mondo intero. Benedetto XVI, nelle sue omelie, mira a introdurre quanti lo ascoltano nel mistero pasquale di Cristo, in cui essi non sono meri osservatori, ma partecipanti.

Questa predicazione mistagogica è in sé potenziata e rafforzata dalla qualità estetica del luogo in cui si compie. Questo tema è emerso spesso al sinodo, ma ha avuto un’importanza particolare nello storico discorso del patriarca ecumenico Bartolomeo I. Nella fede incarnazionale della Chiesa, la Parola di Dio non solo viene udita, ma anche vista. È mediata da icone e immagini. Bartolomeo ha detto delle icone: « Ci incoraggiano a cercare lo straordinario dell’ordinario ».

È stato quindi provvidenziale che, svolgendosi il sinodo in Vaticano, si sia organizzata a Roma, nello splendido spazio espositivo delle Scuderie del Quirinale, una magnifica mostra dell’artista veneziano del primo Rinascimento Giovanni Bellini (1435-1516). Nelle sue meravigliose raffigurazioni della Madonna col Bambino, della crocifissione e della risurrezione di Cristo, lo straordinario e l’ordinario si integrano in modo affascinante, l’uno gettando luce sull’altro. O meglio, la luce di Cristo trasfigura tutto, rivelando l’autentica dignità e il vero destino dell’ordinario.

I dipinti del Bellini, fortemente influenzati dalla tradizione iconica orientale, fanno da splendido commento alla Parola incarnata di Dio, unendo indissolubilmente la lettera e lo spirito. Di fronte a molti suoi dipinti ciascuno può sostare e praticare la « lectio divina », attingendo dalla loro grazia e bellezza acqua per anime assetate.

* * *

Alla fine del sinodo, un vescovo mio amico ha osservato che, a suo parere, esso ha rappresentato da parte della Chiesa una « ricezione » nuova e più profonda della costituzione del Vaticano II sulla divina rivelazione, « Dei Verbum ». Se quel vescovo ha ragione, e penso di sì, questo è un momento di grande significato. Infatti, delle quattro costituzioni, vale a dire dei più importanti documenti del Concilio, la « Dei Verbum » è forse la meno apprezzata e studiata, sebbene sia assolutamente fondamentale.

Nella sua « relatio » di apertura del sinodo, il cardinale Ouellet ha detto molto. Ha parlato della rinnovata comprensione, nella « Dei Verbum », della rivelazione divina come « dinamica e dialogica ». Tuttavia ha ammesso che il documento non è stato « recepito a sufficienza » e non ha ancora dato i frutti sperati.

Quando ci si chiede come questo sia potuto accadere, un possibile indizio è offerto più avanti proprio dal cardinale Ouellet nella sua « relatio », là dove afferma, in modo un po’ provocatorio, che « l’ecclesiocentrismo è estraneo alla riforma del Concilio ». In effetti, è possibile che troppi dibattiti e contrasti conciliari siano stati eccessivamente ecclesiocentrici. Non abbiamo forse avuto la tendenza a dimenticare che Cristo, non la Chiesa, è la luce del mondo (« Lumen gentium »)? Nel sottolineare la necessità della « partecipatio actuosa » alla liturgia, non ci siamo forse accontentati di leggerla solo in termini di funzioni liturgiche da compiere invece che come chiamata a penetrare più in profondità nel mistero pasquale di Cristo? A volte, la legittima insistenza sul ruolo dell’assemblea nell’azione liturgica non ha forse messo in ombra il soggetto primario che è Cristo che si offre al Padre e abilita il popolo di Dio a condividere il suo unico perfetto sacrificio?

La riforma del Concilio è cristocentrica, non ecclesiocentrica. Solo attraverso Cristo la Chiesa è introdotta nella comunione della santissima Trinità che è vita eterna. È questo il cuore del messaggio della « Dei Verbum » e il sinodo da poco conclusosi ci offre la possibilità provvidenziale di ricevere nuovamente questo Vangelo salvifico.

Molto spesso, dopo il Concilio, ci siamo sentiti dire che dovevamo « appropriarci » della Tradizione della Chiesa, che dovevamo farla nostra. Tuttavia, a un livello più profondo ed esigente sarebbe meglio dire: dobbiamo noi far sì che la Tradizione si appropri di noi e consenta alla Parola di Dio di trasformarci. Questo farsi possedere quotidianamente dalla Parola è la vita della Chiesa ed è l’unica base credibile per la sua missione.

L’ELEZIONE DI ISRAELE (Rm 9-11)

L’ELEZIONE DI ISRAELE (Rm 9-11)

stralcio dal libro: Padre Prof. Manns Frédéric, L’Israele di Dio, EDB, Bologna 1998 (titolo originale: L’Israel de Dieu. Essai sur le christianisme primitif)

Parte Prima, pagg. 92-97

L’elezione di Israele è un pilastro che sorregge la Bibbia da Gen 12 fino alla letteratura sapienziale. L’intertestamento (NOTA 1) sviluppa il tema nel libro dei Giubilei 15, 31-32 e nei Salmi di Salomone 9, 8-9. L’elezione si esprime nel dono della Legge e del Sabato. Qumran aveva interpretato  l’alleanza come osservanza dei comandamenti. Con la nascita del cristianesimo, questo pilastro del giudaismo sarebbe stato contestato. La Chiesa ora si sostituì alla Sinagoga, ora comprese la sua missione in continuità con quella della Sinagoga. Interrogheremo al tradizione patristica, dopo un breve richiamo del testo fondamentale di Rm 9-11. Abbiamo voluto consultare  quei testi a monte della fede che furono i Padri e prestare attenzione agli scritti del cristianesimo primitivo che erano molto sensibili al problema di Israele: Rievocheremo alla fine la reazione della Sinagoga. [questo stralcio riguarda unicamente la prima parte, ossia il commento del docente al brano citato della lettera ai Romani].

[salto la "I Premessa" riguarda il comportamento di Gesù nei riguardi della Legge]

II – I privilegi di Israele secondo Rm 9,1-5

Nei suoi scritti della maturità Paolo ritorna sul problema  della Legge e dell’elezione di Israele. Piuttosto che analizzare tutti i testi riguardanti la Legge e l’elezione, ci limitiamo qui al testo fondamentale di Rm 9-11. Quando Paolo rievoca la sorte di Israele, comincia con l’esprimere il dolore causato dal rigetto del suo popolo, e poi lo giustifica con le prerogative di cui Israele era stato onorato. Sono otto i privilegi che Paolo enumera in Rm 9, 4-5 e che definisce come charismata in 11,29: sono doni irrevocabili, perché testimoniano la fedeltà di Dio alla sua parola.

L’adozione filiale. Israele è definito come il figlio primogenito di Dio in Es 4,22. Dt 14,1 e Os 11,1. In Rm 8 Paolo aveva trattato dell’adozione filiale del cristiano, erede di Dio e coerede di Cristo, santificato dallo Spirito. Si chiedeva come tutta la pasta potesse conseguire la gloria che le primizie già possiedono. Riparte dalla radice della filiazione che si trova nella promessa fatta a tutto Israele.
La gloria. Questo termine designa l’apparizione visibile e luminosa della presenza di Dio in seno ad Israele. Es 24,16 e 40, 34-35 ne dà testimonianza. Per i rabbini il concetto è sinonimo di Shekinah di Dio.
Le alleanze. Il termine al plurale rievoca le alleanze con Noè, Abramo, Isacco e Giacobbe, con Mosè e soprattutto quella conclusiva con Davide. Tutta questa serie di alleanze, testimonianze del dialogo incessantemente ripreso da Dio con il suo popolo, ricorda che la storia biblica altro non è che una economia salvifica.
La legislazione. Tutte le leggi considerate in blocco sono riassunte con questo temine. Paolo considera la Legge come un privilegio accordato a Israele. Per suo mezzo Israele può conoscere il Dio vivente: Essa fu un pedagogo che doveva permettere al popolo di restare fedele all’alleanza. È l’espressione della misericordia di Dio.
Il culto. Il Tempio era considerato come abitazione della Shekinah. Tre volte all’anno Israele saliva al tempio per incontrare il suo Dio, offrirgli le primizie dei suoi raccolti e condividere coi poveri i doni di Dio.
Le promesse. Questo termine, sinonimo di alleanza, designa il contenuto specifico delle alleanze. Rm 4, 13 ricorda che Dio promise ad Abramo di ereditare il mondo. Le promesse designano le grazie future, che saranno più grandi dei benefici già accordati.
I Patriarchi. I Padri di Israele sono generalmente rievocati in rapporto ai loro meriti. Il merito di Abramo era sovente messo in rapporto con l’esodo. La liturgia di Rosh-ha-shanah sottolinea il merito di Isacco. Per il merito di Giacobbe Israele aveva ricevuto la Legge.
Il Cristo uscito da Israele. La Bibbia annunciava  che da Sion sarebbe uscito il salvatore. Paolo lo ricorda in Rm 11,26. Le numerose profezie messianiche l’avevano affermato. Conviene notare che Paolo si guarda bene dall’applicare la formula precedente al Cristo, cosa che avrebbe significato che il Messia è proprietà dei giudei. L’espressione « da essi »  significa che il Messia proviene dai giudei in quanto alla sua origine, ma non appartiene loro in modo esclusivo in quanto alla destinazione. L’origine dei privilegi menzionati mostra chiaramente che sono orientati verso il Cristo. Inoltre, dopo aver menzionato il Cristo, Paolo riprende la formula tradizionale: « Dio benedetto nei secoli ».
Dopo aver enumerato questi privilegi, Paolo pone la questione: cosa è Israele? Si impone un ritorno all’indietro sulla Scrittura. Un esame attento del testo sacro mostra che Dio ha chiamato Israele suo figlio primogenito, poiché l’orizzonte di questo popolo è spirituale e indipendente dalla storia naturale. Ma Dio ha agito con sovrana libertà nel confronti del popolo eletto. L’esempio di Ismaele e di Isacco i figli di Abramo, lo dimostra chiaramente. Isacco è in modo esclusivo il padre della posterità di Abramo. Ma questo non significa che tutto ciò che nascerà da Isacco ne farà parte. L’esempio di Esaù e di Giacobbe lo prova. Rebecca vede attuarsi fra i suoi figli una selezione che si era attuata nei confronti dei figli di Abramo. La preferenza liberamente accordata a Giacobbe lo prova. Rebecca vede attuarsi fra i suoi primi figli una selezione che si era attuata nei confronti dei figli di Abramo. La preferenza liberamente accordata a Giacobbe si era espressa prima della nascita dei gemelli: non era fondata su di una merito particolare. Solo i figli della promessa hanno ricevuto la benedizione. C’è dunque un duplice Israele: L’Israele che si è indurito e che si è escluso dalla benedizione e l’Israele che si è aperto al Messia e in lui ha ricevuto la benedizione. Quest’ultimo è l’Israele autentico (Rm 9,6), il resto eletto per grazia (Rm 9,6-29).

III – Alleanza e benedizione

G. Mendenhall, nella sua opera Law and Covenant in Israel, ha formulato l’ipotesi che le formule di alleanza della Bibbia si ispirino a trattati di alleanza del contesto ambientale. Queste formule, dopo un prologo storico e la menzione delle stipulazioni, si concludono con una lista degli dèi presi come testimoni e con delle formule di maledizione e di benedizione. Nella Bibbia, infatti, ritroviamo la presenza della benedizione, dopo le diverse alleanze.
Dopo l’alleanza con Noè, Dio benedice i suoi figli (Gen 0,1). Rinnova la benedizione fatta ad Adamo: « Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra ».
L’alleanza con Abramo è caratterizzata da una benedizione: « Io ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno » (Gen 12, 2-4ù3). Anche Sara riceve una benedizione (Gen 17,16).
L’alleanza con Mosè sul Sinai è accompagnata da una benedizione: « Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa » (Es 19,6).
L’Alleanza con Davide è anch’essa accompagnata da una benedizione: « Non ritirerò da lui il mio favore » (2Sam 7,15).
Dt 28 promette a Mosè, se obbedisce alla legge, innumerevoli benedizioni. Se Israele non obbedisce lo colpiranno le maledizioni.
Si può dire in breve, che la benedizione è la chiave ermeneutica di tutta la storia biblica. Paolo d’altronde lo riconosce in Rm 4. Come Abramo, malgrado la morte che già lo assaliva, si era riconosciuto padre prima di esserlo, sulla semplice parola divina, così il credente si vede giustificato e vivente nel Cristo risorto. In altri termini, la benedizione promessa ad Abramo diventa la redenzione di Dio in Cristo. Incondizionata ed irrevocabile. La benedizione si riassume nel concetto di shalom.
La teologia dell’alleanza nella Lettera ai Romani appare prima di tutto in 3,1-8, che tratta dell’elezione. La benedizione proviene dal sacrificio delle nuova alleanza, perché Cristo è diventato strumento di espiazione. La giustizia dipende ora dalla grazia e dalla misericordia, dal perdono divino dato da Dio in Cristo a tutti gli uomini. A partire dal capitolo 4 Paolo illustra questi concetti basandosi sull’alleanza abramitica, poi a partire dal capitolo 5,12 ne esamina gli effetti su tutta l’umanità dopo Adamo. Il passaggio dal peccato alla grazia, dalla legge al dono dello Spirito è descritto nei cc. 6-8. La forza dello Spirito, ricevuto nel battesimo, fa entrare l’uomo e tutto il creato nella libertà dei figli di Dio. La creazione attende di essere liberata dalla schiavitù. Non è sola, perché tutte le nazioni e Israele attendono questa liberazione. Solo il Cristo apporta la benedizione escatologica alle nazioni e a Israele.

IV – Israele e la benedizione escatologica in Rm 9,6-11,36

In Rm 9, 6-29 Paolo vuole dimostrare che il vero Israele è quello che ha ricevuto la benedizione di Dio, che realizza le promesse fatte ad Abramo. La vera discendenza di Abramo deve essere ricercata nell’economia dell’elezione di Dio che chiama quelli che vuole incorporare nell’alleanza a diventare suoi figli. La misericordia di Dio riduce il numero dei figli di Israele a un resto riunito per pura grazia.
Quando si rilegge l’elenco dei privilegi di Israele, non si può non notare che la benedizione è assente, o se è presente, non appare che associata al Cristo che è Dio benedetto nei secoli.
Nella Lettera ai Galati, che affronta il medesimo tema della Lettera ai Romani, Paolo ritorna sulla benedizione fatta ad Abramo: in te saranno benedette tutte le genti (Gal 3,8). Ora, questa benedizione non viene dalla Legge, che è fonte di maledizione. Il solo discendente di Abramo da cui è venuta la benedizione è il Cristo. La filiazione divina è possibile grazie al dono dello Spirito che Dio ha inviato nei nostri cuori e che ci permette di chiamare Dio Abbà. Quelli che fanno appello alla fede sono i veri figli di Abramo. D’altra parte il dono della Legge non ha mai annullato la promessa. La benedizione è un gesto di unione, un gesto di incontro e di scambio. Benedire è entrare in contatto con qualcuno e stabilire una corrente di vita. La benedizione è anche un gesto di riconciliazione. La parola che esprime nel modo più completo tutte le ricchezze della benedizione è shalom, termine che designa molto più che l’assenza di guerra o la semplice tranquillità. La pace biblica evoca la ricchezza, la salute e la vita, la pienezza di benessere e di gioia. La ricchezza fondamentale della benedizione è quella della fecondità. Essa mostra l’efficacia irrevocabile di una parola pronunciata e di una mano nascosta che dirige gli eventi.
Bisogna dire, alla fine, una parola su di un altro testo in cui Paolo rievoca i privilegi di Israele: la Lettera ai Filippesi 3,5-8. « Circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla Legge: quanto allo zelo, persecutore della Chiesa: irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi tutto oramai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come skybala al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede ». Dopo aver definito i privilegi che gli aveva conferito la sua nascita come delle perdite (zemia), Paolo ricorre al termine skybala che significa sterco e letame. Se Paolo ha scelto un termine forte, lo ha fatto perché voleva evitare ogni sfumatura. Il suo pensiero è chiaro. Dopo l’incontro con Cristo i privilegi nazionali non hanno più senso. Paolo lo ripeterà in altro modo nella Lettera ai Colossesi 3,11: non c’è più greco o giudeo. Non si poteva affermare più chiaramente l’abolizione dei privilegi di Israele.


DA NOTARE:

una nota 1, l’ho messa io, riguarda il significato di intertestamento, si può leggere una spiegazione su:

http://www.corsodireligione.it/bibbiaspecial/dizionarietto/diz_intertestamento.html

UNA CONSIDERAZIONE:

il testo che propongo è uno stralcio, ossia è solo una esegesi del testo; non vi è qui una riflessione teologica, inoltre il testo prosegue con un argomento molti importante: il giudeocristianesimo, presente nei primi secoli e anche molto dopo, insomma voglio dire che la lettura di Padre Manns che propongo va compresa come strettamente biblica, desidero presentare questo testo, appunto come una esegesi, per il resto Padre Manns fa teologia; il recente Sinodo dei Vescovi – giustamente per me, per quello che conta – ribadisce che la stretta esegesi deve essere accompagnata da una riflessione teologica, poi propongo il testo, del Sinodo devo ancora vedere bene tutti i documenti;

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