Mons. Gianfranco Ravasi – l’ultima messa « milanese »: “IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

Metto questo articolo – un po’ in ritardo rispetto all’evento – il saluto di Mons. Ravasi alla città di Milano, il riferimento a Paolo e molto breve, tuttavia posto molto volentieri questo “saluto” perché, sono certa, che tutti amiamo Mons. Gianfranco Ravasi e vale, veramente, la pena di leggere le sue, ultime – perlomeno nel ministero che stava svolgendo – commosse parole, alla città di Milano, dal sito:

http://www.parrocchiamilanino.it/scossa_on_line/in_vetrina/mito2007_ravasi.pdf

Basilica di Sant’Ambrogio in Milano

23 settembre 2007

Ultima messa “milanese” celebrata da monsignor Gianfranco Ravasi

“IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

Il saluto di mons. Gianfranco Ravasi alla città di Milano, alla “sua” città di Milano, per una felice combinazione di eventi, apparentemente indipendenti fra loro ma nei quali chi crede non fatica a riconoscere la “logica di Dio” di cui parla Bernanos, ha trovato una degna e appropriata cornice nel festival “MiToSettembreMusica”: che per tre settimane ha offerto a Milano appuntamenti musicali di ogni genere. Forse il momento più alto di essi è stato, appunto, la Messa per coro e strumenti a fiato di Igor Stravinsky, eseguita dal Coro Filarmonico e dell’Ensemble strumentale della Filarmonica della Scala il 23 settembre in Sant’Ambrogio durante la funzione liturgica domenicale celebrata dall’ex prefetto della Biblioteca Ambrosiana proprio alla vigilia dell’investitura ufficiale alla direzione del Pontificio Collegio della Cultura, fortemente voluta da Benedetto XVI; incarico lasciato dal cardinale Poupard per raggiunti limiti di età. Così la messa in Sant’Ambrogio è diventata proprio l’occasione per lo scambio di saluti fra questo importante uomo di fede e di cultura e la città da lui tanto amata. Amore ricambiato dalla folla che ha gremito la basilica fin nei confessionali e nei più remoti angoli delle cappelle; oltre che all’esterno, nel portico di Ansperto.

Folla di credenti e non credenti, categorie care entrambe al nuovo vescovo ed alle quali, come sempre, si è rivolto durante l’omelia. Folla di persone che, con la propria semplice presenza, si sono unite al saluto iniziale di mons. Marcandalli il quale, a nome del Capitolo della basilica e citando sant’Agostino, ha fatto riferimento alla grande musica unita alla celebrazione liturgica come di opportunità per tutti, credenti e non credenti, di sfiorare la “bellezza tanto antica e sempre nuova” di Dio. Persone che, suscitando anche un impercettibile moto di bonaria contrarietà nel sacerdote sul quale, per un momento, ha prevalso l’uomo di cultura, al Coro si sono addirittura sovrapposte nella recita di non pochi versi del Credo. Quasi a manifestare, anche con questa “intemperanza”, il desiderio di non essere semplici spettatori di un evento, per quanto significativo, ma di essere vera Chiesa. Persone sicuramente coinvolte emotivamente ma, vorremmo dire meglio, coinvolte spiritualmente, per l’opportunità, certo non usuale, di poter cantare l’Alleluja durante la messa assieme al Coro della Scala! Ma l’emozione si è fatta sentire anche per il grande ed esperto comunicatore. L’ha ammesso lui stesso nel corso della sua ultima predica da “milanese”: nella quale ha unito ad un commosso saluto un monito “sociale” e di critica all’idolatria della ricchezza. “LA SCOSSA” era presente e ritiene di fare un gradito servizio ai propri lettori offrendo loro l’opportunità di poterla leggere nell’ampia sintesi che di seguito ne proponiamo (non rivista dal celebrante).

Sant’Ambrogio 23 settembre 2007

Sintesi della predica di monsignor Gianfranco Ravasi

“IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

“Ho più volte celebrato il rito sacro della liturgia in questa basilica, ma oggi mi percorre un particolare fremito di cui renderò ragione alla fine di questa omelia. Molti fra i presenti non possono comprendere parole che per chi è credente salgono all’infinito di Dio. Ma per tutti è possibile accogliere il messaggio di elevarsi oltre la quotidianità. Il testo biblico suscita due riflessioni, due fili che si dipanano dai testi letti. Il primo attraversa tutte e tre le letture che hanno un comune carattere “sociale” (

prima lettura dal libro del profeta Amos: Am 8, 4-7; seconda lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo: 1 Tm 2, 1-8; Vangelo dal Vangelo secondo Luca: Lc 16, 1-13 // le letture sono riportate in coda alla predica – NdR).

L’intreccio delle relazioni fra società e politica è un groviglio oscuro e quotidiano, a volte è un arruffìo di fili che esplode in scandali. E’ il mistero umano della polis. Città non solo di mura ma di persone con reazioni sensitive capaci di creare realtà mirabili come di precipitare nel baratro dell’odio. Amos era un profeta contadino chiamato a predicare in città. Alla sua epoca i poveri erano pedine calpestate di una scacchiera sulla quale altri decidevano le mosse.

Nella lettura dell’apostolo Paolo c’è, invece, la dimensione positiva dell’attestazione di fedeltà all’Impero Romano. Il Cristianesimo non vuole far esplodere le strutture politiche e sociali, se queste hanno una funzione utile per la società, ed invoca, anzi, sul capo dei politici, la mano di Dio che li illumini.

Gesù, infine, parla oggi attraverso una parabola tanto sorprendente quanto poco conosciuta.

E’ lo stesso Gesù del “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” espressione mediante la quale traccia una netta linea di demarcazione tra due sfere; comunque non completamente indipendenti ed estranee fra loro: l’uomo è fatto di spirito e di carne, di vita interiore e sociale. Gesù incide nell’esistenza umana, Gesù parte dalla terra sulla quale l’uomo poggia i piedi, non dall’aria sopra le persone. Parla di campi, fiori, problemi sociali… Di figli: alcuni osservanti, altri incomprensibili. Parla di Erode definendolo “volpe astuta”. Quello che ci propone in questa domenica è un parallelo con i politici oggi ancora valido: un amministratore corrotto che falsifica i bilanci di una società. Gesù parte dal dato di fatto negativo trasmettendo un primo messaggio: vedete l’astuzia dei figli delle tenebre? Arrivano subito a trovare il nucleo fondamentale delle cose; invece voi, figli della luce, siete distratti, acquiescenti, pigri…Porta a modello un cattivo esempio non per il suo contenuto, per l’azione, ma per l’atteggiamento che vi è sotteso. Invita a vegliare. E’ un invito anche per il nostro tempo, la cui malattia peggiore è la tiepidezza. Nel nostro tempo non ci sono più male o più ingiustizia di quanti ce ne siano stati in passato.

Quando sono nato io il mondo era in mano a due criminali: Hitler e Stalin. L’Europa era striata dal sangue… morte e distruzione erano in agguato ovunque. Oggi la situazione è più grave, ma non per il male e la cattiveria. Oggi il male è la superficialità, la banalità, la stupidità… un linguaggio che è come una chiacchiera. “Lo stupido dice quel che sa, il sapiente sa quel che dice” recita un detto rabbinico. “Sapere” deriva dal latino sàpere, che vuol dire aver sapore e gusto intenso, e perciò richiede riflessione e meditazione. Il “forte” silenzio che percepisco ora, mi dice che questa affermazione vale anche per i non credenti che sono presenti qui in chiesa: non si può vivere di banalità, l’uomo vero non è quello mostrato dalla TV. Pascal diceva che l’uomo supera infinitamente l’uomo, che, anche se non crede, ha in sé l’amore, la via per elevarsi.

La seconda riflessione, più breve, parte dall’ammonimento di Gesù: “non potete servire Dio e Mammona”. Mammona è una parola aramaica entrata nelle lingue successive. Ha la stessa radice di amen, il verbo della fede, della fiducia in Dio, nel trascendente. Siamo ininterrottamente sospesi fra due adorazioni: da una parte l’amen verso Dio e la sua legge morale e dall’altra l’idolatria delle cose. Lo scrittore Leonardo Sciascia ha detto, su mammona, che il mondo degli uomini è diviso in due settori individuabili da una stessa frase che può essere letta con accenti diversi. “La ricchezza è morta” e “la ricchezza è bella anche se è morta”, è lo splendore del vitello d’oro luccicante e brillante. Dobbiamo decidere dove stiamo se con l’amen morale o con l’idolatria verso le cose. Se abbiamo qualcosa in mano non possiamo adoperarla per accarezzare o sollevare chi può avere bisogno di noi. Se abbiamo le mani occupate per tenerci stretta la ricchezza non abbiamo spazio per altro. Anche per i credenti e per la Chiesa c’è il rischio di adorare la ricchezza morta.

Infine vengo ora ai saluti, ed è per me un’emozione forte. Da domani torno a Roma, città della mia giovinezza e dei miei studi di teologia. Il mio orizzonte non sarà il Vaticano ma i dicasteri per il mondo e le chiese nel mondo: non la Chiesa ma le Chiese. So che mi aspetta un programma molto intenso di viaggi e di incontri. Sono grato a monsignor Marcandalli per il suo saluto a nome del capitolo di Sant’Ambrogio, sono grato anche a chi è fuori della Chiesa, nel portico di Ansperto… e alla Scala, mio grande amore, che ringrazio perché mi permette di salutare con l’armonia e lo splendore della musica di Stravinski. Stravinski era un credente, cristiano ortodosso, e ha composto questa messa per la liturgia. Non è quindi una musica da ascoltare ma una musica nella quale entrare; per prepararsi a comporla aveva letto Agostino e Bossuet, un vescovo e predicatore del ‘600. Questa Messa è risuonata a Milano per la prima volta nell’ottobre del 1948, alla Scala, diretta da Ernest Ansermet. Per me è il rinnovarsi della centralità di una grande dolcezza. Per questo dico grazie a Dio per la musica, grazie per tutti coloro che fanno musica, come in questi giorni del festival MiTo, e, prima di tutti, dico grazie alla Scala. Nel VI secolo Cassiodoro primo vescovo cattolico della Calabria ammoniva: “Se continuiamo a commettere ingiustizie Dio ci lascerà senza musica: avremo solo rumore, fracasso o silenzio.” Assurdo deriva da sordo, senza la musica siamo nell’assurdità. Oggi, invece, la Messa di Stravinsky unisce l’armonia della voce umana e l’armonia strumentale.

Qui saluto i milanesi e i lombardi con le parole di Bernardino Telesio filosofo del ‘500 che, nominato vescovo dal Papa Pio IV, non voleva accettare l’incarico. Con le sue parole voglio ricordare la mia città in cui ho visto i tramonti e le albe, nella quale ho vissuto ed ho camminato…“La mia città può far benissimo a meno di me, sono io che non posso fare a meno di voi; essa che mi scorre nelle vene e che mi pulsa dentro, nel battito del mio cuore”.

Mons. Gianfranco Ravasi

LE LETTURE DELLA MESSA:

PRIMA LETTURA

Am 8, 4-7

Dal libro del profeta Amos.

Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo le misure e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mai le loro opere.

SECONDA LETTURA

1 Tm 2, 1-8

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo.

Carissimo, ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo dico la verità, non mentisco , maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese.

VANGELO

Lc 16, 1-13

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli:

«C’era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. L’amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d’olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona».

Publié dans : Card. Gianfranco Ravasi |le 20 novembre, 2008 |Pas de Commentaires »

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