Archive pour octobre, 2008

Giovanni Paolo II – Udienza 22 maggio 1991 (sul tema della carità)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1991/documents/hf_jp-ii_aud_19910522_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 22 maggio 1991

1. Nellanima del cristiano c’è un nuovo amore, per il quale egli partecipa allamore stesso di Dio: Lamore di Dio – afferma San Paolo – è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5, 5). È un amore di natura divina, ben superiore perciò alle capacità connaturali allanima umana. Nel linguaggio teologico esso prende il nome di carità. Questamore soprannaturale ha un ruolo fondamentale per la vita cristiana, come rileva per esempio San Tommaso, il quale sottolinea con chiarezza che la carità non solo è la più nobile di tutte le virtù” (excellentissima omnium virtutum), ma è anche la forma di tutte le virtù, poiché grazie ad essa i loro atti sono ordinati al debito ed ultimo fine (S. Thomae, Summa theologiae, II-II q. 23, aa. 6 et 8).

La carità è pertanto il valore centrale dell’uomo nuovo, ricreato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera (Ef 4, 24; cf. Gal 3, 27). Se si paragona la vita cristiana a un edificio in costruzione, è facile riconoscere nella fede il fondamento di tutte le virtù che lo compongono. È la dottrina del Concilio di Trento, secondo il quale la fede è linizio dellumana salvezza, fondamento e radice di ogni giustificazione (Denz.-S. 2532). Ma lunione con Dio mediante la fede ha come scopo lunione con Lui nellamore di carità, amore divino partecipato allanima umana come forza operante e unificatrice.

2. Nel comunicare il suo slancio vitale allanima, lo Spirito Santo la rende atta ad osservare, in virtù della carità soprannaturale, il duplice comandamento dell’amore, dato da Gesù Cristo: per Dio e per il prossimo.

Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore . . . (Mt 12, 30; cf. Dt 6, 4-5). Lo Spirito Santo fa partecipe lanima dello slancio filiale di Gesù verso il Padre, sicché – come dice San Paolo – tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio (Rm 8, 14). Fa amare il Padre come il Figlio lo ha amato, cioè con un amore filiale, che si manifesta nel grido Abbà” (cf. Gal 4, 6; Rm 8, 15), ma si estende a tutto il comportamento di coloro che, nello Spirito, sono figli di Dio. Sotto linflusso dello Spirito, tutta la vita diventa un omaggio al Padre, carico di riverenza e di amore filiale.

3. Dallo Spirito Santo deriva anche losservanza dellaltro comandamento: l’amore del prossimo. Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati, comanda Gesù agli Apostoli e a tutti i suoi seguaci. In quelle parole: Come io vi ho amati, vi è il nuovo valore dellamore soprannaturale, che è partecipazione allamore di Cristo per gli uomini, e quindi alla Carità eterna, nella quale ha la sua prima origine la virtù della carità. Come scrive San Tommaso dAquino, lessenza divina è per se stessa carità, come è sapienza e bontà. Perciò, come si può dire che noi siamo buoni della bontà che è Dio, e sapienti della sapienza che è Dio, perché la bontà che ci rende formalmente buoni è la bontà di Dio, e la sapienza che ci rende formalmente sapienti è una partecipazione della divina sapienza; così la carità con la quale formalmente amiamo il prossimo è una partecipazione della carità divina (S. Thomae, Summa theologiae, II-II, q. 23, a. 2, ad 1). E tale partecipazione avviene ad opera dello Spirito Santo che ci rende così capaci di amare non solo Dio, ma anche il prossimo, come Gesù Cristo lo ha amato. Sì, anche il prossimo: perché, essendo lamore di Dio riversato nei nostri cuori, per esso possiamo amare gli uomini e anche, in qualche modo, le stesse creature irrazionali (cf. Ivi, q. 25, a.3) come le ama Dio.

4. Lesperienza storica ci dice quanto sia difficile lattuazione concreta di questo precetto. E tuttavia esso è al centro dell’etica cristiana, come un dono che viene dallo Spirito e che bisogna chiedere a Lui. Lo ribadisce San Paolo, che nella Lettera ai Galati li esorta a vivere nella libertà data dalla nuova legge dellamore, purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri (Gal 5, 13). Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Gal 5, 14). E dopo aver raccomandato: Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne (Gal 5, 16), segnala lamore di carità (agape) come primo frutto dello Spirito Santo (Gal 5, 22). È dunque lo Spirito Santo che ci fa camminare nellamore e ci rende capaci di superare tutti gli ostacoli alla carità.

5. Nella prima Lettera ai Corinzi San Paolo sembra voler indugiare nellelenco e nella descrizione delle doti della carità verso il prossimo. Infatti, dopo aver raccomandato di aspirare ai carismi più grandi (1 Cor 12, 31), fa lelogio della carità, come di qualcosa di ben superiore a tutti i doni straordinari che può concedere lo Spirito Santo, e di più fondamentale per la vita cristiana. Sgorga così dalla sua bocca e dal suo cuore lInno alla carità, che si può considerare un inno allinflusso dello Spirito Santo sul comportamento umano. In esso la carità si configura in una dimensione etica con caratteri di concretezza operativa: La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dellingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1 Cor 13, 4-7).

Nellelencare i frutti dello Spirito, si direbbe che San Paolo, correlativamente allInno, voglia indicare alcuni atteggiamenti essenziali della carità. Tra questi:

1) la pazienza, innanzitutto (cf. linno La carità è paziente: 1 Cor 13, 4). Si potrebbe osservare che lo Spirito dà lui stesso lesempio della pazienza verso i peccatori e il loro difettoso comportamento, come nei Vangeli si legge di Gesù, che veniva chiamato amico dei pubblicani e dei peccatori (Mt 11, 19; Lc 7, 34). È un riflesso della stessa carità di Dio, osserva San Tommaso, che usa misericordia per amore, perché ci ama come qualcosa di se stesso (Summa theologiae, II-II, q. 30, a. 2, ad 1).

2) Frutto dello Spirito è, poi, la benevolenza (cf. linno La carità è paziente: 1 Cor 13, 4). È anchessa un riflesso della divina benevolenza verso gli altri, visti e trattati con simpatia e comprensione.

3) C’è poi la bontà (cf. linno La carità è paziente: 1 Cor 13, 5). Si tratta di un amore disposto a dare generosamente, come quello dello Spirito Santo che moltiplica i suoi doni e partecipa ai credenti la carità del Padre.

4) Infine la mitezza (cf. linno La carità è paziente: 1 Cor 13, 5). Lo Spirito Santo aiuta i cristiani a riprodurre le disposizioni del cuore mite e umile (Mt 11, 29) di Cristo, e ad attuare la beatitudine della mitezza da lui proclamata (cf. Mt 5, 5).

6. Con lenumerazione delle opere della carne (cf. Gal 5, 19-21), San Paolo chiarisce le esigenze della carità, da cui derivano doveri ben concreti, in opposizione alle tendenze dell’“homo animalis, cioè vittima delle sue passioni. In particolare: evitare gelosie e invidie, volendo il bene del prossimo; evitare inimicizie, dissensi, divisioni, contese, promuovendo tutto ciò che conduce allunità. A ciò allude il versetto dellInno paolino, secondo il quale la carità non tiene conto del male ricevuto (1 Cor 13, 5). Lo Spirito Santo ispira la generosità del perdono per le offese ricevute e i danni subiti, e ne rende capaci i fedeli, ai quali, come Spirito di luce e di amore, fa scoprire le esigenze illimitate della carità.

7. La storia conferma la verità di quanto esposto: la carità risplende nella vita dei santi e della Chiesa, dal giorno della Pentecoste ad oggi. Tutti i santi, tutte le epoche della Chiesa portano i segni della carità e dello Spirito Santo. Si direbbe che in alcuni periodi storici la carità, sotto lispirazione e la guida dello Spirito, ha preso forme particolarmente caratterizzate dallazione soccorritrice e organizzatrice degli aiuti per vincere la fame, le malattie, le epidemie di tipo antico e nuovo. Si sono avuti così i Santi della carità”, come sono stati denominati specialmente nellOttocento e nel nostro secolo. Sono Vescovi, Presbiteri, Religiosi e Religiose, laici cristiani: tutti diaconi della carità. Molti sono stati glorificati dalla Chiesa; molti altri dai biografi e dagli storici, che riescono a vedere con i loro occhi o a scoprire nei documenti la verace grandezza di quei seguaci di Cristo e servi di Dio. E tuttavia i più restano in quellanonimato della carità che riempie di bene il mondo, continuamente ed efficacemente. Sia gloria anche a questi ignoti militi, a queste silenziose testimoni della carità! Dio li conosce, Dio li glorifica veramente! Noi dobbiamo essere loro grati, anche perché sono la riprova storica dell’“amore di Dio riversato nei cuori umani dallo Spirito Santo, primo artefice e principio vitale dellamore cristiano.

Publié dans:temi - le virtù teologali |on 30 octobre, 2008 |Pas de commentaires »

Padre Cantalamessa – Inno alla Carità (1Cor 12, 31 – 13,13) (26.1.2007)

dal sito:
http://www.zenit.org/article-10746?l=italian

Il predicatore del Papa sul più celebre e sublime inno all’amore

Commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., alla liturgia di domenica prossima

ROMA, venerdì, 26 gennaio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. predicatore della Casa Pontificia alla liturgia di domenica prossima, IV del Tempo Ordinario.

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SE NON AVESSI LA CARITA’…

IV Domenica del Tempo Ordinario
Geremia 1, 4-5.17-19; I Corinzi 12, 31-13,13; Luca 4, 21-30

Dedichiamo la nostra riflessione alla seconda lettura, dove troviamo un messaggio importantissimo. Si tratta del celebre inno di san Paolo alla carità. Carità è il termine religioso per dire amore. Questo dunque è un inno allamore, forse il più celebre e sublime che sia mai stato scritto. Quando apparve sulla scena del mondo il cristianesimo, l

amore aveva avuto già diversi cantori. Il più illustre era stato Platone che aveva scritto su di esso un intero trattato. Il nome comune dellamore era allora eros (da cui il nostro erotico ed erotismo). Il cristianesimo sentì che questo amore passionale di ricerca e di desiderio non bastava a esprimere la novità del concetto biblico. Perciò evitò del tutto il termine eros e ad esso sostituì quello di agape, che si dovrebbe tradurre con dilezione o con carità, se questo termine non avesse acquistato ormai un senso troppo ristretto (fare la carità, opere di carità).

La differenza principale tra i due amori è questa. Lamore di desiderio, o erotico, è esclusivo; si consuma tra due persone; lintromissione di una terza persona significherebbe la sua fine, il tradimento. A volte perfino larrivo di un figlio riesce a mettere in crisi questo tipo di amore. Lamore di donazione, o agape, al contrario, abbraccia tutti, non può escludere nessuno, neppure il nemico. La formula classica del primo amore è quella che sentiamo sulle labbra di Violetta nella Traviata di Verdi: Amami Alfredo, amami quantio tamo. La formula classica della carità è quella di Gesù che dice: Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri. Questo è un amore fatto per circolare, per espandersi. Unaltra differenza è questa. Lamore erotico, nella forma più tipica che è linnamoramento, per sua natura non dura a lungo, o dura soltanto cambiando oggetto, cioè innamorandosi successivamente di diverse persone. Della carità invece S. Paolo dice che rimane, anzi è lunica cosa che rimane in eterno, anche dopo che saranno cessate la fede e la speranza. Tra i due amori però

quello di ricerca e quello di donazione , non c’è separazione netta e contrapposizione, ma piuttosto sviluppo, crescita. Il primo, l’eros, è per noi il punto di partenza, il secondo, la carità, il punto di arrivo. Tra i due c’è tutto lo spazio per una educazione allamore e una crescita in esso. Prendiamo il caso più comune che è lamore di coppia. Nellamore tra due sposi, allinizio prevarrà leros, lattrattiva, il desiderio reciproco, la conquista dellaltro, e quindi un certo egoismo. Se questo amore non si sforza di arricchirsi, cammin facendo, di una dimensione nuova, fatta di gratuità, di tenerezza reciproca, di capacità di dimenticarsi per laltro e proiettarsi nei figli, tutti sappiamo come andrà a finire.

Il messaggio di Paolo è di grande attualità. Tutto il mondo dello spettacolo e della pubblicità sembra impegnato oggi a inculcare ai giovani che lamore si riduce alleros e leros al sesso. Che la vita è un idillio continuo, in un mondo dove tutto è bello, giovane, sano; dove non c’è vecchiaia, malattia, e tutti possono spendere quanto vogliono. Ma questa è una colossale menzogna che genera attese sproporzionate, che, deluse, provocano frustrazione, ribellione contro la famiglia e la società, e aprono spesso la porta al crimine. La parola di Dio ci aiuta a far sì che non si spenga del tutto nella gente il senso critico di fronte a quello che quotidianamente le viene propinato.

GIOVANNI PAOLO II – ELENCO DEI TESTI MESSI

SCUSATE CANCELLO QUESTA PAGINA, MI ACCORGO CHE È UN PASTICCIO, CERCO DI RIFARLA APPENA POSSO…MEGLIO…SE CI RIESCO…METTENDO GLI SCRITTI  IN UN ORDINE MIGLIORE…

Benedetto XVI e la teologia della Croce in San Paolo – mercoledì 29 ottobre

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-15958?l=italian

Benedetto XVI e la teologia della Croce in San Paolo

Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in Piazza San Pietro. Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sul tema: « Limportanza della cristologia – La teologia della Croce » nella predicazione paolina.

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Cari fratelli e sorelle,

nella personale esperienza di san Paolo c’è un dato incontrovertibile: mentre all’inizio era stato un persecutore ed aveva usato violenza contro i cristiani, dal momento della sua conversione sulla via di Damasco, era passato dalla parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita e il motivo della sua predicazione. La sua fu unesistenza interamente consumata per le anime (cfr 2 Cor 12,15), per niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà. Nellincontro con Gesù gli si era reso chiaro il significato centrale della Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui stesso. Ambedue le cose erano importanti; luniversalità: Gesù è morto realmente per tutti, e la soggettività: Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si era manifestato l’amore gratuito e misericordioso di Dio. Questo amore Paolo sperimentò anzitutto in se stesso (cfr Gal 2,20) e da peccatore diventò credente, da persecutore apostolo. Giorno dopo giorno, nella sua nuova vita, sperimentava che la salvezza era grazia, che tutto discendeva dalla morte di Cristo e non dai suoi meriti, che del resto non cerano. Il « vangelo della grazia » diventò così per lui l’unico modo di intendere la Croce, il criterio non solo della sua nuova esistenza, ma anche la risposta ai suoi interlocutori. Tra questi vi erano, innanzitutto, i giudei che riponevano la loro speranza nelle opere e speravano da queste la salvezza; vi erano poi i greci che opponevano la loro sapienza umana alla croce; infine, vi erano quei gruppi di eretici, che si erano formati una propria idea del cristianesimo secondo il proprio modello di vita.

Per san Paolo la Croce ha un primato fondamentale nella storia dellumanità; essa rappresenta il punto focale della sua teologia, perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni creatura. Il tema della croce di Cristo diventa un elemento essenziale e primario della predicazione dellApostolo: l’esempio più chiaro riguarda la comunità di Corinto. Di fronte ad una Chiesa dove erano presenti in modo preoccupante disordini e scandali, dove la comunione era minacciata da partiti e divisioni interne che incrinavano l’unità del Corpo di Cristo, Paolo si presenta non con sublimità di parola o di sapienza, ma con l’annuncio di Cristo, di Cristo crocifisso. La sua forza non è il linguaggio persuasivo ma, paradossalmente, la debolezza e la trepidazione di chi si affida soltanto alla « potenza di Dio » (cfr1 Cor 2,1-4). La Croce, per tutto quello che rappresenta e quindi anche per il messaggio teologico che contiene, è scandalo e stoltezza. L’Apostolo lo afferma con una forza impressionante, che è bene ascoltare dalle sue stesse parole: « La parola della Croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio…è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani » (1 Cor 1,18-23).Le prime comunit

à cristiane, alle quali Paolo si rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e vivo; l’Apostolo vuole ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è sempre Colui che è stato crocifisso. Lo scandalo e la stoltezza della Croce stanno proprio nel fatto che laddove sembra esserci solo fallimento, dolore, sconfitta, proprio lì c’è tutta la potenza dell’Amore sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e lamore è la vera potenza che si rivela proprio in questa apparente debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon, cioè trappola o pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile nelle Sacre Scritture. Paolo, con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima: per i Giudei la Croce contraddice l’essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la fedeltà al Dio dei Padri, per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è la ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso.

Paolo stesso in più di un’occasione fece l’amara esperienza del rifiuto dell’annuncio cristiano giudicato insipiente, privo di rilevanza, neppure degno di essere preso in considerazione sul piano della logica razionale. Per chi, come i greci, vedeva la perfezione nello spirito, nel pensiero puro, già era inaccettabile che Dio potesse divenire uomo, immergendosi in tutti i limiti dello spazio e del tempo. Decisamente inconcepibile era poi credere che un Dio potesse finire su una Croce! E vediamo come questa logica greca è anche la logica comune del nostro tempo. Il concetto di apátheia, indifferenza, quale assenza di passioni in Dio, come avrebbe potuto comprendere un Dio diventato uomo e sconfitto, che addirittura si sarebbe poi ripreso il corpo per vivere come risorto? « Ti sentiremo su questo unaltra volta » (At 17,32) dissero sprezzantemente gli Ateniesi a Paolo, quando sentirono parlare di risurrezione dei morti. Ritenevano perfezione il liberarsi del corpo concepito come prigione; come non considerare unaberrazione il riprendersi il corpo? Nella cultura antica non sembrava esservi spazio per il messaggio del Dio incarnato. Tutto levento « Gesù di Nazaret » sembrava essere contrassegnato dalla più totale insipienza e certamente la Croce ne era il punto più emblematico.Ma perch

é san Paolo proprio di questo, della parola della Croce, ha fatto il punto fondamentale della sua predicazione? La risposta non è difficile: la Croce rivela « la potenza di Dio » (cfr1 Cor 1,24), che è diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: « Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini » (ivi v. 25). Distanti secoli da Paolo, noi vediamo che nella storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il Crocifisso è sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore che arriva fino alla Croce per salvare l’uomo. Dio si serve di modi e strumenti che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell’uomo e, dall’altra, la vera potenza di Dio, cioè la gratuità dell’amore: proprio questa totale gratuità dell’amore è la vera sapienza. Di ciò san Paolo ha fatto esperienza fin nella sua carne e ce lo testimonia in svariati passaggi del suo percorso spirituale, divenuti precisi punti di riferimento per ogni discepolo di Gesù: « Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia: la mia potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12,9); e ancora: « Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti » (1 Cor 1,28). LApostolo si identifica a tal punto con Cristo che anch’egli, benché in mezzo a tante prove, vive nella fede del Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per i peccati di lui e per quelli di tutti (cfr Gal 1,4; 2,20). Questo dato autobiografico dell’Apostolo diventa paradigmatico per tutti noi.

San Paolo ha offerto una mirabile sintesi della teologia della Croce nella seconda Lettera ai Corinzi (5,14-21), dove tutto è racchiuso tra due affermazioni fondamentali: da una parte Cristo, che Dio ha trattato da peccato in nostro favore (v. 21), è morto per tutti (v. 14); dall’altra, Dio ci ha riconciliati con sé, non imputando a noi le nostre colpe (vv. 18-20). E da questo « ministero della riconciliazione » che ogni schiavitù è ormai riscattata (cfr 1 Cor 6,20; 7,23). Qui appare come tutto questo sia rilevante per la nostra vita. Anche noi dobbiamo entrare in questo « ministero della riconciliazione », che suppone sempre la rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dellamore. San Paolo ha rinunciato alla propria vita donando totalmente se stesso per il ministero della riconciliazione, della Croce che è salvezza per tutti noi. E questo dobbiamo saper fare anche noi: possiamo trovare la nostra forza proprio nellumiltà dellamore e la nostra saggezza nella debolezza di rinunciare per entrare così nella forza di Dio. Noi tutti dobbiamo formare la nostra vita su questa vera saggezza: non vivere per noi stessi, ma vivere nella fede in quel Dio del quale tutti possiamo dire: « Mi ha amato e ha dato se stesso per me ».

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23) (Padre Prof. Marco Adinolfi)

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23)

Stralcio dal libro: Il Verbo uscito dal silenzio, Edizioni Dehoniane, Roma 1992

Sento la necessità di giustificare la scelta di questo scritto del Prof. Adinolfi, essendo stato scritto diversi anni fa; riporto, a spiegazione, uno stralcio delle ultime righe di questo studio: “Cristo crocifisso è veramente “stoltezza per i pagani”! Per i pagani di ieri e per i pagani di sempre, per i quali la croce di Cristo è negazione del senso, della cultura, della sapienza, di cui tanto si gloria il mondo… Non ultima, né meno ambita, la sapienza autosufficiente, per la quale Dio è un non problema e il suo Cristo crocifisso un non senso”

metto le note solo quando sono interpretative del testo, e cito solo i libri dei Padri apostolici, dei Padri della Chiesa, Magistero, autori antichi anche non cristiani; gli altri citati, moderni, spesso in tedesco, non mi sembra utile metterli, almeno in questa sede…in questo Blog;

la traslitterazione dal greco è quella del docente;

Di padre Adinolfi ho già messo, a maggio, un commento a 2Cor 8,9, ora posto il capitolo IX; vorrei mettere, prima di iniziare, la breve sentenza che Padre Adinolfi ha posto all’inizio di questo libro e che è come una lettura globale di questo suo specifico studio:

“C’è un solo Dio,

il quale si è manifestato

per mezzo di Gesù Cristo suo Figlio,

che è il suo Verbo uscito dal silenzio

e che in ogni cosa è stato di compiacimento a chi lo ha mandato.Sant’Ignazio, ai Magnesi 8,2”

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23)

Capitolo IX, pagg. 143-155

Paragonando la fede cristiana delle origini a un continuo suicidio della ragione perché imponeva l’autoumiliazione e il sacrificio di ogni orgoglio, Nietzsche nel suo Al di là del bene e del male scriveva: “Gli uomini moderni…non avvertono quanto di superlativamente orribile c’era, per un gusto antico, nel paradosso della formula del “dio crocifisso”.

Dopo un cenno alla dialettica sapienza-stoltezza, attraverso una rapida indagine del mondo pagano a cavallo del primo secolo cristiano, lo studio presente tenterà di captare e ritrasmettere alcuni degli accenti più paradossalmente stolti di cui appariva impregnato, all’uomo della strada e al filosofo, il kerygma di Cristo crocifisso.

1. SAPIENZA E STOLTEZZA NELL’ECONOMIA DELLA SALVEZZA

Stigmatizzando il primo dei disordini che turbano la giovane chiesa di Corinto (1Cor 1, 10-4,21), sa Paolo dichiara che a monte delle divisioni interne della comunità sta la nozione erronea che essa ha del cristianesimo.

No. Incentrato nella croce salvifica di cristo, il vangelo non può essere etichettato come filosofia. Pur essendo sapienza perfetta, nel senso corrente dei termini, il vangelo non è sapienza, è stoltezza, non è sophia, è môria.

1.1. Quattro tempi della storia della salvezza

A dispetto delle sue note oscurità di dettagli, illuminante il v. 21 del capitolo 1: “Poiché infatti nel sapiente disegno di Dio, en tê sophia tou Theou) il mondo con (tutta) la (sua) sapienza (dia tês sophias) non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza (dia tês môrias) della predicazione (tou kêrygmatos)”.

Sapienza e stoltezza si avvicendavano nella economia della salvezza. Sapienza di Dio: sapienza autentica, che in pratica e in teoria può essere disprezzata come stoltezza. Sapienza degli uomini: sapienza autentica se aperta verso Dio; sapienza inautentica se ateisticamente autonoma, e dunque vera e propria stoltezza.

Dal punto di vista della dialettica sapienza divina-sapienza-umana, si potrebbero distinguere quattro tempi nella storia della salvezza.

Il primo tempo è illuminato dalla sapienza di Dio. Dio si autorivela nel creato perché gli uomini in ciò che esiste si aprano a captare il riflesso del Creatore e a prendere coscienza del loro carattere creaturale, ritenendo Dio il fondamento universale dell’essere.

Il secondo tempo è reso opaco dallo scacco della sapienza umana. Nella sua orgogliosa ingratitudine l’uomo storico, invece di porsi davanti a Dio, si ripiega tutto su se stesso, si pone al posto di Dio come fondamento dell’essere, e tutto e tutti giudica col parametro della sua atea autosufficienza.

Il terzo tempo riacquista la limpidezza della sapienza divina. Dando fondo ai tesori del suo amoroso piano di salvezza, Dio si autorivela nel Cristo crocifisso.

Il quarto tempo può essere oscurato o rischiarato dalla sapienza umana. Se si irretisce in una sapienza immanentistica, l’uomo si ostina a non riconoscere Dio rigettando come somma stoltezza la croce di Cristo. Se invece opera la sua liberazione mediante una sapienza aperta alla trascendenza, l’uomo riconosce e serve il suo Dio accettando nella fede la croce di Cristo come sapienza superiore.

Insomma, mentre per coloro che accolgono la chiamata salvatrice di Dio, Cristo crocifisso è potente sapienza di Dio (1,18: dynamis Theou 1,24; Theou sophia), per quelli che si pongono sulla via della perdizione la croce non è che stoltezza (môria) (1,18).

In realtà “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto (ta môra) per confondere (kataischynê) i sapienti (tous sophous)…perché nessun uomo possa gloriarsi (mê kauchêsêtai) davanti a Dioo (1Cor 1,27.29)

1.2. Abominazione per Dio l’autosufficienza umana

Uniforme l’azione di Dio, per il quale è empia abominazione l’autosufficienza umana sotto qualunque forma essa si celi.

Gli ebrei e gli uomini di tutti i tempi che li imitano si gloriano delle loro opere, persuasi di conquistarsi con essere la propria giustificazione. Giustificando “Per fede, indipendentemente dalle opere” (Rm 3, 28), Dio pone alla gogna e spazza via ogni vento proveniente dalla “legge delle opere” e lo sostituisce col vanto proveniente dalla “legge della fede” (v.27). Per opera di Dio è adesso diventato per noi giustizia (dikaiosynê) Cristo Gesù (1Cor 1, 30).

I pagani e i loro imitatori di ogni tempo si gloriano della loro sapienza, convinti di raggiungere la salvezza per via di argomentazioni e speculazioni che non hanno altro metro e orizzonte che l’io dell’uomo. Operando la salvezza dei credenti per mezzo della croce di Cristo (1Cor 1,21), Dio espone alla confusione la sapienza di questo mondo distruggendola (v.19), rendendola e dimostrandola stolta (emôranen) (v.20). Per opera di Dio è adesso diventato per noi sapienza (sophia) Cristo Gesù (v. 30). Solamente accettandolo nella fede, noi scopriamo nella croce di Cristo l’ultima e definitiva autorivelazione di Dio che riconcilia a sé il mondo.

Col risuscitarlo dai morti, infatti, Dio presenta Cristo come fondamento e inizio di un mondo non più alienato dal suo Creatore. Mondo che può autocomprendersi come nuovo e vivere questa novità di vita che gli è donata da Dio solo se opera il suo annientamento in Cristo. La sua risurrezione con Cristo si fonda e comincia con la sua crocifissione con Cristo.

Soltanto la fede, apertura fiduciosa e senza riserve a Dio, può accettare questa nuova visione della realtà. La sapienza orgogliosamente autarchica del mondo, che non riconosce come criterio di certezza se non la propria esperienza e la propria storia, non ammetterà mai un intervento diretto di Dio che imprima una svolta sconvolgente alla storia. E considererà stoltezza la sapienza di Dio, benché “ciò che è stoltezza (to môron) di Dio” sia “più sapiente (sophôreton) degli uomini” (1Cor 1,25).

“Ogni forma di incredulità – scrive sant’Ilario – è stoltezza; infatti gli increduli, facendo uso della sapienza della loro mente imperfetta, regolando tutto in conformità dei loro meschini ragionamenti, pensano che non possa avvenire ciò che non riescono a spiegare;…una persona stabilisce che non si sia potuto verificare tutto ciò che essa giudica che non possa avvenire” (1)

2. I PAGANI E LA CROCE DI CRISTO

“I greci cercano la sapienza, sophian zêtousin” (1Cor 1,22). Nulla di più storicamente esatto di questa affermazione paolina. Anche nell’età ellenistica, somma aspirazione dei greci era la sapienza, nella quale il sofista Gorgia ravvisava l’armonia dell’anima (2), Aristotele “la più perfetta delle scienze” (3), gli stoici “la scienza delle cose divine e umane” (4).

Acquistando la sapienza, l’uomo si avvicinava a Dio, anzi, secondo la filosofia platonica (cita San Giustino, Dialogo con Trifone) vedeva Dio, ritenuto l’unico che possedesse la sapienza (5) o che la possedesse in grado eccelso (Gorgia, Encomio di Elena).

Molteplici quindi le ragioni che inducevano un greco, e in genere qualsiasi pagano ellenizzato, a respingere la crocifissione di Cristo agli antipodi della sapienza, a considerarla una insipienza e stupidità.

2.1. Dio patetico

Il kerygma cristiano presentava Dio che “dimostra il suo amore (agapên) per noi, perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8). Esaltava Dio che, “essendo ricco di misericordia (plousios…en eleei) per il grande amore (agapên) col quale ci ha amati (êgapêsen), da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo (Ef 2,4-5).

Tutte stoltezze per i pagani, fin dai tempi di Platone e Aristotele. Dio non può amare. Dio non può avere compassione. Dio non può avere nessuna passione (pathos), è per essenza impassibile, apatico (apathês).

Essendo perfettissimo, insegnava Platone, Dio è autosufficiente (6), e dunque immutabile e senza affetti. È un’assurdità, ribadiva Aristotele, dire di amare Zeus, perché l’amore suppone corrispondenza e Zeus non può amare (7). All’Artemide euripidea sono proibite le lacrime (8), vietate del resto, secondo Ovidio, al volto di qualsiasi altra divinità (9).

È noto che nei primi secoli dell’era volgare lo stoicismo, grazie anche ai suoi numerosi predicatori ambulanti, argutamente definiti “i frati mendicanti dell’antichità”, era diventata la filosofia più comune seguita dall’uomo della strada come dal dotto.

È noto pure il disprezzo stoico per ogni passione (pathos), intesa come “moto irrazionale (alogos) e innaturale dell’anima” (10) e come istinto eccedente la misura (hormê pleonazousa) (11). Il pathos è concepito come un affezione che, venendo dall’esterno, altera l’equilibrio interiore dell’uomo limitando, e annullando, la libera autodeterminazione di quella ragione (logos) cui spetta il dominio, la direzione e lo sviluppo della persona umana.

Malattie dell’anima, le passioni, sono anche peccato (12). Ovvio quindi il dovere di lottare contro di esse (13) e di sopprimerle con l’aiuto della ragione (14).

Nessuna passione è lecita. Neppure la misericordia (elos), che appartiene a una delle quattro passioni principali (15) e cioè al dolore (lypê), e che consiste appunto in un dolore che ci prende nel vedere un individuo colpito, senza sua colpa, da un male che temiamo possa quanto prima abbattersi anche su di noi (16).

Di qui certi precetti sconcertanti di Zenone, riferiti a Cicerone: Riteneva che il sapiente non debba nulla puramente opinare, di nulla pentirsi, mai mutare il suo parere”; “Mai il sapiente è mosso da benevolenza, mai perdona ad alcun delitto; non può avere misericordia se non chi sia stolto e leggero; non è da uomo lasciarsi muovere e placare con preghiere” (17).

Essendo una debolezza d’animo, la misericordia deve essere schivata dal sapiente. Il quale farà tutto quello che sogliono fare gli uomini che hanno compassione. Potrà anche giungere a piangere con chi soffre. Ma, gli raccomanda Epitteto, “bada, però, di non piangere anche dentro di te (esôthe)” (18). In altri termini, resta interiormente impassibile. È l’apatheia che, secondo gli stoici, costituiva la suprema perfezione posseduta da Dio e bramata dagli uomini saggi (19).

Stoltezza, dunque, per i pagani Cristo morto in croce per l’amore misericordioso che Dio nutre per gli uomini.

NOTE

1. Sant’Ilario di Poitiers, De Trinitate 3, 24; PL 10, 93 – trad. G. Tezzo

2. Gorgia, Encomio di Elena, fr. B 11,1 (Diels)

3. Aristotele, Etica Nicomachea 6, 7, 1141°

4. Aezio, Placita 1,2

5. Platone, Convivio 204a

6. Platone, Filebo

7. Aristotele, Grande etica 2,11,1208b

8. Euripide, Ippolito 1396

9. Ovidio, Metamorphoses 2, 621

10. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 7, 110

11. Cicerone, Academica posteriora 1,38

12. Plutarco, De virtute morali 10, 449 d

13. Aristone, in Clemente Alessandrino, Stromata 2, 20, 108, 172 (PG 8, 1052)

14. Cicerone, Academica posteriora 1,38

15. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 7,110

16. Aristotele, Retorica 2, 8, 1385b 13

17. Cicerone, Pro Murena 61 (SVF I, 54, 214)

18. Epitteto, Manuale 16

19. Epitteto, Diatribe 4, 3, 7;

il seguito e la conclusione di questo studio subito sotto;

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23) (Padre Prof. Marco Adinolfi)

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23)

PARTE SECONDA:

2.2. Il Dio incarnato

Ispirandosi al kerygma primitivo delle preesistenza divina di Cristo, un antico inno esaltava Cristo Gesù che “pur essendo di natura divina…, spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini…, facendosi obbediente fino alla morte…di croce” (Fil 2, 6ss).

Cristo crocifisso, Dio fattosi uomo nel seno di una vergine e morto in croce: un’altra stoltezza per i pagani.

Trifone gridava al paradosso e all’insipienza (1) ed invitava Giustino a non raccontar favole simili a quella greca di Perseo, che sarebbe nato da Danae fecondata da Zeus, apparsole sotto forma di pioggia d’oro (2).

Alludendo ai tanti miti, “ciance, presi da essi sul serio”, Taziano ritorceva l’accusa che i pagani rivolgevano ai cristiani di essere stolti, di insegnare stupidaggini e di muovere al riso (3).

È vergognosa (4) per Celso l’incarnazione di Cristo. È insulsa, dal momento che l’onniscienza e l’onnipotenza permettono a Dio di sapere e di agire tra gli uomini senza bisogno di scendere sulla terra (5). È assurda, dato che non può consentire di alterarsi Dio, sommamente buono, bello, felice, magnifico (6)

2.3. Dio il Cristo crocifisso

Se è stoltezza un Dio che s’incarna, per i pagani è stoltezza ancora più mostruosa un Dio che muore sulla croce.

Si pensi al crocifisso blasfemo, graffito nel paedagogium imperiale sul Palatino nel II-III secolo con la scritta: “Alexamenos adora Dio”. Quale Dio? Un uomo dalla testa d’asino confitto in croce.

Paurosamente infame per gli antichi il supplizio della croce, che Cicerone chiama “il più crudele e il più tetro” (7) e Tacito “la morte più turpe” (8). Una pena riservata di solito al ladro sacrilego, al disertore, al ribelle, al reo di alto tradimento. Una nefandezza che, secondo Cicerone, i cittadini romani non possono giuridicamente provare nella loro carne, e il cui solo nome dev’essere lontano dal loro pensiero, dalla loro vista e dal loro udito (9).

Comune certamente l’obiezione pagana riportata da Lattanzio. Se il Dio incarnato credeva necessario morire – una ipotesi che Celso stimava “cosa cattiva ed empia” (10) – avrebbe dovuto scegliersi almeno un genere di morte decoroso e degno di lui, e non già sopportare un supplizio così turpe e infamante come la croce, indegno perfino di un uomo libero anche se colpevole (112).

Giustino rigetta l’accusa pagana di follia per la fede cristiana nella divinità del crocifisso (12) appellandosi tra l’altro alle profezie messianiche dell’Antico Testamento (13), profezie che il giudeo Trifone prende a senso unico, come annuncianti un Messia “glorioso e grande (endoxon kai megan), e non già come quello adorato dai cristiani, senza onore e senza gloria (atimos kai adoxos)…poiché fu crocifisso” (14).

Celso deride i cristiani che propongono come Dio un Cristo di cui la vita fu la più infame (epirrêtotatos) (15), l’arresto il più disonorevole (atimotatos) (16), l’uccisione la più miserevole (oiktios) (17) e la più infamante (aischistos) (18) che si possano immaginare.

Oltre che per aver preso corpo umano, Porfirio disprezza Cristo “per l’infamia della croce, propter crucis opprobrium” (19); così come Giuliano l’apostata ha pena degli stolti cristiani che, facendo perversamente appello alla parte dell’anima amante di favole, puerile e sciocca, adorano il legno della croce, si tracciano quel segno sulla fronte e lo scolpiscono sull’atrio delle case (20)

Insomma la croce di cristo, a detta di Sant’Atanasio, è l’unico motivo delle calunnie e delle risate sguaiate (platy gelôsi) dei pagani alle spalle dei cristiani (21).

2.4. Il Cristo risorto

Anche se insisteva sulla morte di Gesù, sul suo carattere ignominioso, la sua potenza salvifica e la sua azione discriminante, il kerygma di Cristo non si fermava alla tragedia del Calvario. Proseguiva con la glorificazione della pasqua. “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì (apethanen) per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato (egêgertai) il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15, 3-4).

Un’altra stoltezza per i pagani la risurrezione di Cristo crocifisso.

Poiché predica la risurrezione, i curiosi filosofi epicurei e stoici di Atene invitano all’Areopago Paolo, che considerano sprezzantemente spermologos chiacchierone, ciarlatano, sputasentenze (At 17, 18). E quando lo sentono dire che per giudicare il mondo Dio ha designato un uomo “accreditandolo dinanzi a tutti col risuscitarlo (anastêsas) dai morti” (v. 31), alcuni apertamente deridono (echleuazon) l’annunciatore di simili stupidità, altri lo liquidano salvando una parvenza di galateo (v. 32).

Nella sua autodifesa al re Agrippa II Paolo afferma di predicare elusivamente quello che è stato predetto dai profeti, che Cristo cioè avrebbe sofferto (pathêtos) e sarebbe stato il primo a risorgere dai morti (ex anastaseôs nekrôn) (At 26, 23). Sa di parlare secondo verità e saggezza (v. 25). Ma deve sentirsi dire dal procuratore pagano Porcio Festo di aver perso la testa, di delirare: “Sei pazzo (vaneggi: mainê), Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello (portato alla pazzia: eis manian)” (v.24)

Lo stesso senso di disgusto per la risurrezione, che mette alla frusta il buon senso, in Celso. Secondo Origene, Celso schernisce l’impotenza di Cristo a rimuovere la pietra del suo sepolcro (22), esclude che qualcuno sia mai risorto (23), e respinge la risurrezione come dottrina empia (miaron) e turpe (aischron), ripugnante (apoptyston), sciocca (êlithion) e assurda (adynaton) (24).

2.5. Il Cristo nella passione e nella risurrezione

Ancora stoltezza per i pagani l’atteggiamento tenuto da Cristo nella sua passione e risurrezione.

Oltre che venir meno all’ideale di apatheia, di impassibilità, nella sua passione, Gesù fu agli antipodi del sapiente così com’e è visto, ad esempio, da Zenone e dagli stoici: “è invincibile, senza rivali…non può subire costrizione da parte di alcuno…né avere impedimenti…né sottostare a violenza…né essere oggetto di male…né essere ingannato…è felice al sommo grado, fortunato, beato…pieno di dignità”. (25)

Si spiega come Celso metta in ridicolo Cristo che trema per la paura e va scappando vergognosamente; si nasconde, si fa abbandonare e tradire dai suoi apostoli, si fa arrestare (26); non respinge né punisce i suoi derisori (27); è incapace di aiutarsi da sé o di farsi aiutare dal Padre (28); lancia sulla croce prima di morire un grido ignobile (29).

Si spiega come Porfirio disistimi come oscure, stupide e indegne di un sapiente che non può non disprezzare la morte le parole del Getsemani rivolte ai discepoli: “Vegliate e pregate…” e al Padre: “Passi da me questo calice” (30). E come contesti il comportamento di Gesù che subisce ingiustizie e insolenze, senza mostrare coraggio e senza pronunciare, nemmeno davanti a Caifa e a Pilato, parole degne di un sapiente. (31)

Sulla stessa lunghezza d’onda si trovano le obiezioni pagane riportate da Lattanzio contro la debolezza con cui Gesù tollera villanie, violenze e condanna invece di sbaragliare gli avversari con la onnipotenza, facendo rifulgere così, almeno nell’imminenza della sua morte, la sua maestà divina. (32)

Criticando il modo stolto di agire di Gesù tornato in vita, Celso da…maestro di saggezza, insegna che il risorto avrebbe dovuto apparire non a poche donne e a pochi discepoli, ma ai suoi offensori e ai suoi giudici, a tutti, anzi, per manifestare la sua potenza divina ed esporre le ragioni per cui era sceso sulla terra (33).

* * *

“Nessuno si avanzi, che sia persona istruita (pepaideumenos), nessuno che sia saggio (sophos), nessuno fornito di giudizio (phronimos)! Queste doti da noi sono considerate pessime! Ma se c’è qualcuno ignorante (amathês), qualcuno insensato (anoêtos), qualcuno senza istruzione (apaideutos)” (34)

Questi, secondo Celso, sarebbero i precetti cristiani. Cristo crocifisso è veramente “stoltezza per i pagani”! Per i pagani di ieri e per i pagani di sempre, per i quali la croce di Cristo è negazione del senso, della cultura, della sapienza, di cui tanto si gloria il mondo.

Ma Dio detesta ogni vanto che non sia della croce. Perché è per mezzo di essa che per Paolo e per ogni credente il mondo è stato crocifisso (Gal 6,14). È stato ucciso, spazzato via “come somma e forma delle possibilità esistenziali terrene ed umane”, insieme con tutte le sue esigenze e le sue seduzioni. Non ultima né meno ambita la sapienza autosufficiente, per la quale Dio è un non problema e il suo Cristo crocifisso un non senso.

NOTE

1. Giustino, Dialogo con Trifone 48 (Pg 6, 580)

2. Giustino, Dialogo con Trifone 67, 2 (PG 6, 629)

3. Taziano, Discorso ai Greci, 21, 1 (PG 6, 852)

4. Origene, Contro Celso 4,2 (PG 11, 1029)

5. Origene, Contro Celso, 4,3 (PG 11, 1031)

6. Origene, Contro Celso 4,14 (PG 11, 1044)

7. Cicerone, In Verrem, 2, 5 64, 165

8. Tacito, historiae 4, 3, 11;

9. Cicerone, Pro Rabirio 5,16

10. Origene, Contro Celso 7, 14 (PG 11, 1440)

11. Lattanzio, Divinae institutiones 4,26 (PL 6, 529)

12. Giustino, Apologia 1,13, 4 (PG 6, 348)

13. Giustino, Apologia, 1, 53, 2 (PG 6, 405)

14. Giustino, Dialogo con Trifone 32, 1 (PG 6, 541.543)

15. Origene, Contro Celso 7, 53 (PG 11, 1497)

16. Origene, Contro Celso 2, 31; 6, 10 (PG 11, 852.1305)

17. Origene, Contro Celso, 7, 53 (PG 11, 1497)

18. Origene, Contro Celso 6, 10 (PG 11, 1305)

19. Agostino, De Civitate Dei 10, 28 (PL 11,307)

20. Cirillo Alessandrino, Contro l’imperatore Giuliano 2,6 (PG 76, 560c 796d-797°)

21. Atanasio, Contro i pagani 1 (PG 25,4)

22. Origene, Contro Celso 5, 58 (PG 11, 1273)

23. Origene, Contro Celso, 2,55 (PG 11, 884)

24. Origene, Contro Celso, 5,14 (PG 11, 773)

25. Crisippo, in STOBEO, Ecloga 2,7, 11g (SVF III, 567)

26. Origene, Contro Celso 2, 9 (PG 11, 808)

27. Origene, Contro Celso, 2, 35 (PG856-857)

28. Origene, Contro Celso, 1, 54 (PG 11, 760)

29. Origene, Contro Celso 2, 58 (PG 11, 888)

30. Porfirio, Contro i cristiani fr. 62 (ed Harnack)

31. Porfirio, Contro i cristiani, fr 63;

32. Lattanzio, Divinae istitutiones, 4, 22 (PL 6, 18)

33. Origene, Contro Celso, 2, 63.73 (PG 11, 896.909)

34. Origene, Contro Celso 3, 44 (PG 11, 976)

Omelia del Papa per la conclusione del Sinodo dei Vescovi sulla Parola (ha commentato anche le letture della messa di oggi)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-15916?l=italian

Omelia del Papa per la conclusione del Sinodo dei Vescovi sulla Parola

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 26 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questa domenica nella Basilica vaticana la concelebrazione dell’Eucaristia con i Padri sinodali, in occasione della conclusione della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si è svolta nell’Aula del Sinodo in Vaticano, dal 5 al 26 ottobre 2008, sul tema: Verbum Domini in vita et missione Ecclesiæ (« La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa »).

* * *

Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

cari fratelli e sorelle!

La Parola del Signore, risuonata poc’anzi nel Vangelo, ci ha ricordato che nell’amore si riassume tutta la Legge divina. L’Evangelista Matteo racconta che i farisei, dopo che Gesù ebbe risposto ai sadducei chiudendo loro la bocca, si riunirono per metterlo alla prova (cfr 22,34-35). Uno di questi, un dottore della legge, gli chiese: « Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento? » (v. 36). La domanda lascia trasparire la preoccupazione, presente nell’antica tradizione giudaica, di trovare un principio unificatore delle varie formulazioni della volontà di Dio. Era domanda non facile, considerato che nella Legge di Mosè sono contemplati ben 613 precetti e divieti. Come discernere, tra tutti questi, il più grande? Ma Gesù non ha nessuna esitazione, e risponde prontamente: « Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento » (vv. 37-38). Nella sua risposta, Gesù cita lo Shemà, la preghiera che il pio israelita recita più volte al giorno, soprattutto al mattino e alla sera (cfr Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41): la proclamazione dell’amore integro e totale dovuto a Dio, come unico Signore. L’accento è posto sulla totalità di questa dedizione a Dio, elencando le tre facoltà che definiscono l’uomo nelle sue strutture psicologiche profonde: cuore, anima e mente. Il termine mente, diánoia, contiene l’elemento razionale. Dio non è soltanto oggetto dell’amore, dell’impegno, della volontà e del sentimento, ma anche dell’intelletto, che pertanto non va escluso da questo ambito. E’ anzi proprio il nostro pensiero a doversi conformare al pensiero di Dio. Poi, però, Gesù aggiunge qualcosa che, in verità, non era stato richiesto dal dottore della legge: « Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso » (v. 39). L’aspetto sorprendente della risposta di Gesù consiste nel fatto che egli stabilisce una relazione di somiglianza tra il primo e il secondo comandamento, definito anche questa volta con una formula biblica desunta dal codice levitico di santità (cfr Lv 19,18). Ed ecco quindi che nella conclusione del brano i due comandamenti vengono associati nel ruolo di principio cardine sul quale poggia l’intera Rivelazione biblica: « Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti » (v. 40).

La pagina evangelica sulla quale stiamo meditando pone in luce che essere discepoli di Cristo è mettere in pratica i suoi insegnamenti, che si riassumono nel primo e più grande comandamento della Legge divina, il comandamento dell’amore. Anche la prima Lettura, tratta dal libro dell’Esodo, insiste sul dovere dell’amore; un amore testimoniato concretamente nei rapporti tra le persone: devono essere rapporti di rispetto, di collaborazione, di aiuto generoso. Il prossimo da amare è anche il forestiero, l’orfano, la vedova e l’indigente, quei cittadini cioè che non hanno alcun « difensore ». L’autore sacro scende a dettagli particolareggiati, come nel caso dell’oggetto dato in pegno da uno di questi poveri (cfr Es 20,25-26). In tal caso è Dio stesso a farsi garante della situazione di questo prossimo.

Nella seconda Lettura possiamo vedere una concreta applicazione del sommo comandamento dell’amore in una delle prime comunità cristiane. San Paolo scrive ai Tessalonicesi, lasciando loro capire che, pur avendoli conosciuti da poco, li apprezza e li porta con affetto nel cuore. Per questo egli li addita come un « modello per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia » (1 Ts 1,6-7). Non mancano certo debolezze e difficoltà in quella comunità fondata di recente, ma è l’amore che tutto supera, tutto rinnova, tutto vince: l’amore di chi, consapevole dei propri limiti, segue docilmente le parole di Cristo, divino Maestro, trasmesse attraverso un suo fedele discepolo. « Voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore – scrive san Paolo – avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove ». « Per mezzo vostro – prosegue l’Apostolo – la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede si è diffusa dappertutto » (1 Ts 1,6.8). L’insegnamento che traiamo dall’esperienza dei Tessalonicesi, esperienza che in verità accomuna ogni autentica comunità cristiana, è che l’amore per il prossimo nasce dall’ascolto docile della Parola divina. E’ un amore che accetta anche dure prove per la verità della parola divina e proprio così il vero amore cresce e la verità risplende in tutto il suo fulgore. Quanto è importante allora ascoltare la Parola e incarnarla nell’esistenza personale e comunitaria!

In questa celebrazione eucaristica, che chiude i lavori sinodali, avvertiamo in maniera singolare il legame che esiste tra l’ascolto amorevole della Parola di Dio e il servizio disinteressato verso i fratelli. Quante volte, nei giorni scorsi, abbiamo sentito esperienze e riflessioni che evidenziano il bisogno oggi emergente di un ascolto più intimo di Dio, di una conoscenza più vera della sua parola di salvezza; di una condivisione più sincera della fede che alla mensa della parola divina si alimenta costantemente! Cari e venerati Fratelli, grazie per il contributo che ciascuno di voi ha offerto all’approfondimento del tema del Sinodo: « La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa ». Tutti vi saluto con affetto. Un saluto speciale rivolgo ai Signori Cardinali Presidenti delegati del Sinodo e al Segretario Generale, che ringrazio per la loro costante dedizione. Saluto voi, cari fratelli e sorelle, che siete venuti da ogni continente recando la vostra arricchente esperienza. Tornando a casa, trasmettete a tutti il saluto affettuoso del Vescovo di Roma. Saluto i Delegati Fraterni, gli Esperti, gli Uditori e gli Invitati speciali: i membri della Segreteria Generale del Sinodo, quanti si sono occupati dei rapporti con la stampa. Un pensiero speciale va ai Vescovi della Cina Continentale, che non hanno potuto essere rappresentati in questa assemblea sinodale. Desidero farmi qui interprete, e renderne grazie a Dio, del loro amore per Cristo, della loro comunione con la Chiesa universale e della loro fedeltà al Successore dell’Apostolo Pietro. Essi sono presenti nella nostra preghiera, insieme con tutti i fedeli che sono affidati alle loro cure pastorali. Chiediamo al «Pastore supremo del gregge» (1 Pt 5, 4) di dare ad essi gioia, forza e zelo apostolico per guidare con sapienza e con lungimiranza la comunità cattolica in Cina, a tutti noi così cara.

Noi tutti, che abbiamo preso parte ai lavori sinodali, portiamo con noi la rinnovata consapevolezza che compito prioritario della Chiesa, all’inizio di questo nuovo millennio, è innanzitutto nutrirsi della Parola di Dio, per rendere efficace l’impegno della nuova evangelizzazione, dell’annuncio nei nostri tempi. Occorre ora che questa esperienza ecclesiale sia recata in ogni comunità; è necessario che si comprenda la necessità di tradurre in gesti di amore la parola ascoltata, perché solo così diviene credibile l’annuncio del Vangelo, nonostante le umane fragilità che segnano le persone. Ciò richiede in primo luogo una conoscenza più intima di Cristo ed un ascolto sempre docile della sua parola.

In quest’Anno Paolino, facendo nostre le parole dell’Apostolo: « guai a me se non predicassi il Vangelo » (1 Cor 9,16), auspico di cuore che in ogni comunità si avverta con più salda convinzione quest’anelito di Paolo come vocazione al servizio del Vangelo per il mondo. Ricordavo all’inizio dei lavori sinodali l’appello di Gesù: « la messe è molta » (Mt 9,37), appello a cui non dobbiamo mai stancarci di rispondere malgrado le difficoltà che possiamo incontrare. Tanta gente è alla ricerca, talora persino senza rendersene conto, dell’incontro con Cristo e col suo Vangelo; tanti hanno bisogno di ritrovare in Lui il senso della loro vita. Dare chiara e condivisa testimonianza di una vita secondo la Parola di Dio, attestata da Gesù, diventa pertanto indispensabile criterio di verifica della missione della Chiesa. La letture che la liturgia offre oggi alla nostra meditazione ci ricordano che la pienezza della Legge, come di tutte le Scritture divine, è l’amore. Chi dunque crede di aver compreso le Scritture, o almeno una qualsiasi parte di esse, senza impegnarsi a costruire, mediante la loro intelligenza, il duplice amore di Dio e del prossimo, dimostra in realtà di essere ancora lontano dall’averne colto il senso profondo. Ma come mettere in pratica questo comandamento, come vivere l’amore di Dio e dei fratelli senza un contatto vivo e intenso con le Sacre Scritture? Il Concilio Vaticano II afferma essere « necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura » (Cost. Dei Verbum, 22), perché le persone, incontrando la verità, possano crescere nell’amore autentico. Si tratta di un requisito oggi indispensabile per l’evangelizzazione. E poiché non di rado l’incontro con la Scrittura rischia di non essere « un fatto » di Chiesa, ma esposto al soggettivismo e all’arbitrarietà, diventa indispensabile una promozione pastorale robusta e credibile della conoscenza della Sacra Scrittura, per annunciare, celebrare e vivere la Parola nella comunità cristiana, dialogando con le culture del nostro tempo, mettendosi al servizio della verità e non delle ideologie correnti e incrementando il dialogo che Dio vuole avere con tutti gli uomini (cfr ibid., 21). A questo scopo va curata in modo speciale la preparazione dei pastori, preposti poi alla necessaria azione di diffondere la pratica biblica con opportuni sussidi. Vanno incoraggiati gli sforzi in atto per suscitare il movimento biblico tra i laici, la formazione degli animatori dei gruppi, con particolare attenzione ai giovani. È da sostenere lo sforzo di far conoscere la fede attraverso la Parola di Dio anche a chi è « lontano » e specialmente a quanti sono in sincera ricerca del senso della vita. Molte altre riflessioni sarebbero da aggiungere, ma mi limito infine a sottolineare che il luogo privilegiato in cui risuona la Parola di Dio, che edifica la Chiesa, come è stato detto tante volte nel Sinodo, è senza dubbio la liturgia. In essa appare che la Bibbia è il libro di un popolo e per un popolo; un’eredità, un testamento consegnato a lettori, perché attualizzino nella loro vita la storia di salvezza testimoniata nello scritto. Vi è pertanto un rapporto di reciproca vitale appartenenza tra popolo e Libro: la Bibbia rimane un Libro vivo con il popolo, suo soggetto, che lo legge; il popolo non sussiste senza il Libro, perché in esso trova la sua ragion d’essere, la sua vocazione, la sua identità. Questa mutua appartenenza fra popolo e Sacra Scrittura è celebrata in ogni assemblea liturgica, la quale, grazie allo Spirito Santo, ascolta Cristo, poiché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Scrittura e si accoglie l’alleanza che Dio rinnova con il suo popolo. Scrittura e liturgia convergono, dunque, nell’unico fine di portare il popolo al dialogo con il Signore e all’obbedienza alla volontà del Signore. La Parola uscita dalla bocca di Dio e testimoniata nelle Scritture torna a Lui in forma di risposta orante, di risposta vissuta, di risposta sgorgante dall’amore (cfr Is 55,10-11). Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché dal rinnovato ascolto della Parola di Dio, sotto l’azione dello Spirito Santo, possa sgorgare un autentico rinnovamento nella Chiesa universale, ed in ogni comunità cristiana. Affidiamo i frutti di questa Assemblea sinodale alla materna intercessione della Vergine Maria. A Lei affido anche la II Assemblea Speciale del Sinodo per l’Africa, che si svolgerà a Roma nell’ottobre del prossimo anno. E’ mia intenzione recarmi nel marzo pro esimo in Camerun per consegnare ai rappresentanti delle Conferenze Episcopali dell’Africa l’Instrumentum laboris di tale Assemblea sinodale. Di lì proseguirò, a Dio piacendo, per l’Angola, per celebrare solennemente il 500° anniversario di evangelizzazione del Paese. Maria Santissima, che ha offerto la sua vita come « serva del Signore », perché tutto si compisse in conformità ai divini voleri (cfr Lc 1,38) e che ha esortato a fare tutto ciò che Gesù avrebbe detto (cfr Gv 2,5), ci insegni a riconoscere nella nostra vita il primato della Parola che sola ci può dare salvezza. E così sia!

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