CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23) (Padre Prof. Marco Adinolfi)

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23)

Stralcio dal libro: Il Verbo uscito dal silenzio, Edizioni Dehoniane, Roma 1992

Sento la necessità di giustificare la scelta di questo scritto del Prof. Adinolfi, essendo stato scritto diversi anni fa; riporto, a spiegazione, uno stralcio delle ultime righe di questo studio: “Cristo crocifisso è veramente “stoltezza per i pagani”! Per i pagani di ieri e per i pagani di sempre, per i quali la croce di Cristo è negazione del senso, della cultura, della sapienza, di cui tanto si gloria il mondo… Non ultima, né meno ambita, la sapienza autosufficiente, per la quale Dio è un non problema e il suo Cristo crocifisso un non senso”

metto le note solo quando sono interpretative del testo, e cito solo i libri dei Padri apostolici, dei Padri della Chiesa, Magistero, autori antichi anche non cristiani; gli altri citati, moderni, spesso in tedesco, non mi sembra utile metterli, almeno in questa sede…in questo Blog;

la traslitterazione dal greco è quella del docente;

Di padre Adinolfi ho già messo, a maggio, un commento a 2Cor 8,9, ora posto il capitolo IX; vorrei mettere, prima di iniziare, la breve sentenza che Padre Adinolfi ha posto all’inizio di questo libro e che è come una lettura globale di questo suo specifico studio:

“C’è un solo Dio,

il quale si è manifestato

per mezzo di Gesù Cristo suo Figlio,

che è il suo Verbo uscito dal silenzio

e che in ogni cosa è stato di compiacimento a chi lo ha mandato.Sant’Ignazio, ai Magnesi 8,2”

CRISTO CROCIFISSO STOLTEZZA…PER I PAGANI (1Cor 1,23)

Capitolo IX, pagg. 143-155

Paragonando la fede cristiana delle origini a un continuo suicidio della ragione perché imponeva l’autoumiliazione e il sacrificio di ogni orgoglio, Nietzsche nel suo Al di là del bene e del male scriveva: “Gli uomini moderni…non avvertono quanto di superlativamente orribile c’era, per un gusto antico, nel paradosso della formula del “dio crocifisso”.

Dopo un cenno alla dialettica sapienza-stoltezza, attraverso una rapida indagine del mondo pagano a cavallo del primo secolo cristiano, lo studio presente tenterà di captare e ritrasmettere alcuni degli accenti più paradossalmente stolti di cui appariva impregnato, all’uomo della strada e al filosofo, il kerygma di Cristo crocifisso.

1. SAPIENZA E STOLTEZZA NELL’ECONOMIA DELLA SALVEZZA

Stigmatizzando il primo dei disordini che turbano la giovane chiesa di Corinto (1Cor 1, 10-4,21), sa Paolo dichiara che a monte delle divisioni interne della comunità sta la nozione erronea che essa ha del cristianesimo.

No. Incentrato nella croce salvifica di cristo, il vangelo non può essere etichettato come filosofia. Pur essendo sapienza perfetta, nel senso corrente dei termini, il vangelo non è sapienza, è stoltezza, non è sophia, è môria.

1.1. Quattro tempi della storia della salvezza

A dispetto delle sue note oscurità di dettagli, illuminante il v. 21 del capitolo 1: “Poiché infatti nel sapiente disegno di Dio, en tê sophia tou Theou) il mondo con (tutta) la (sua) sapienza (dia tês sophias) non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza (dia tês môrias) della predicazione (tou kêrygmatos)”.

Sapienza e stoltezza si avvicendavano nella economia della salvezza. Sapienza di Dio: sapienza autentica, che in pratica e in teoria può essere disprezzata come stoltezza. Sapienza degli uomini: sapienza autentica se aperta verso Dio; sapienza inautentica se ateisticamente autonoma, e dunque vera e propria stoltezza.

Dal punto di vista della dialettica sapienza divina-sapienza-umana, si potrebbero distinguere quattro tempi nella storia della salvezza.

Il primo tempo è illuminato dalla sapienza di Dio. Dio si autorivela nel creato perché gli uomini in ciò che esiste si aprano a captare il riflesso del Creatore e a prendere coscienza del loro carattere creaturale, ritenendo Dio il fondamento universale dell’essere.

Il secondo tempo è reso opaco dallo scacco della sapienza umana. Nella sua orgogliosa ingratitudine l’uomo storico, invece di porsi davanti a Dio, si ripiega tutto su se stesso, si pone al posto di Dio come fondamento dell’essere, e tutto e tutti giudica col parametro della sua atea autosufficienza.

Il terzo tempo riacquista la limpidezza della sapienza divina. Dando fondo ai tesori del suo amoroso piano di salvezza, Dio si autorivela nel Cristo crocifisso.

Il quarto tempo può essere oscurato o rischiarato dalla sapienza umana. Se si irretisce in una sapienza immanentistica, l’uomo si ostina a non riconoscere Dio rigettando come somma stoltezza la croce di Cristo. Se invece opera la sua liberazione mediante una sapienza aperta alla trascendenza, l’uomo riconosce e serve il suo Dio accettando nella fede la croce di Cristo come sapienza superiore.

Insomma, mentre per coloro che accolgono la chiamata salvatrice di Dio, Cristo crocifisso è potente sapienza di Dio (1,18: dynamis Theou 1,24; Theou sophia), per quelli che si pongono sulla via della perdizione la croce non è che stoltezza (môria) (1,18).

In realtà “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto (ta môra) per confondere (kataischynê) i sapienti (tous sophous)…perché nessun uomo possa gloriarsi (mê kauchêsêtai) davanti a Dioo (1Cor 1,27.29)

1.2. Abominazione per Dio l’autosufficienza umana

Uniforme l’azione di Dio, per il quale è empia abominazione l’autosufficienza umana sotto qualunque forma essa si celi.

Gli ebrei e gli uomini di tutti i tempi che li imitano si gloriano delle loro opere, persuasi di conquistarsi con essere la propria giustificazione. Giustificando “Per fede, indipendentemente dalle opere” (Rm 3, 28), Dio pone alla gogna e spazza via ogni vento proveniente dalla “legge delle opere” e lo sostituisce col vanto proveniente dalla “legge della fede” (v.27). Per opera di Dio è adesso diventato per noi giustizia (dikaiosynê) Cristo Gesù (1Cor 1, 30).

I pagani e i loro imitatori di ogni tempo si gloriano della loro sapienza, convinti di raggiungere la salvezza per via di argomentazioni e speculazioni che non hanno altro metro e orizzonte che l’io dell’uomo. Operando la salvezza dei credenti per mezzo della croce di Cristo (1Cor 1,21), Dio espone alla confusione la sapienza di questo mondo distruggendola (v.19), rendendola e dimostrandola stolta (emôranen) (v.20). Per opera di Dio è adesso diventato per noi sapienza (sophia) Cristo Gesù (v. 30). Solamente accettandolo nella fede, noi scopriamo nella croce di Cristo l’ultima e definitiva autorivelazione di Dio che riconcilia a sé il mondo.

Col risuscitarlo dai morti, infatti, Dio presenta Cristo come fondamento e inizio di un mondo non più alienato dal suo Creatore. Mondo che può autocomprendersi come nuovo e vivere questa novità di vita che gli è donata da Dio solo se opera il suo annientamento in Cristo. La sua risurrezione con Cristo si fonda e comincia con la sua crocifissione con Cristo.

Soltanto la fede, apertura fiduciosa e senza riserve a Dio, può accettare questa nuova visione della realtà. La sapienza orgogliosamente autarchica del mondo, che non riconosce come criterio di certezza se non la propria esperienza e la propria storia, non ammetterà mai un intervento diretto di Dio che imprima una svolta sconvolgente alla storia. E considererà stoltezza la sapienza di Dio, benché “ciò che è stoltezza (to môron) di Dio” sia “più sapiente (sophôreton) degli uomini” (1Cor 1,25).

“Ogni forma di incredulità – scrive sant’Ilario – è stoltezza; infatti gli increduli, facendo uso della sapienza della loro mente imperfetta, regolando tutto in conformità dei loro meschini ragionamenti, pensano che non possa avvenire ciò che non riescono a spiegare;…una persona stabilisce che non si sia potuto verificare tutto ciò che essa giudica che non possa avvenire” (1)

2. I PAGANI E LA CROCE DI CRISTO

“I greci cercano la sapienza, sophian zêtousin” (1Cor 1,22). Nulla di più storicamente esatto di questa affermazione paolina. Anche nell’età ellenistica, somma aspirazione dei greci era la sapienza, nella quale il sofista Gorgia ravvisava l’armonia dell’anima (2), Aristotele “la più perfetta delle scienze” (3), gli stoici “la scienza delle cose divine e umane” (4).

Acquistando la sapienza, l’uomo si avvicinava a Dio, anzi, secondo la filosofia platonica (cita San Giustino, Dialogo con Trifone) vedeva Dio, ritenuto l’unico che possedesse la sapienza (5) o che la possedesse in grado eccelso (Gorgia, Encomio di Elena).

Molteplici quindi le ragioni che inducevano un greco, e in genere qualsiasi pagano ellenizzato, a respingere la crocifissione di Cristo agli antipodi della sapienza, a considerarla una insipienza e stupidità.

2.1. Dio patetico

Il kerygma cristiano presentava Dio che “dimostra il suo amore (agapên) per noi, perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8). Esaltava Dio che, “essendo ricco di misericordia (plousios…en eleei) per il grande amore (agapên) col quale ci ha amati (êgapêsen), da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo (Ef 2,4-5).

Tutte stoltezze per i pagani, fin dai tempi di Platone e Aristotele. Dio non può amare. Dio non può avere compassione. Dio non può avere nessuna passione (pathos), è per essenza impassibile, apatico (apathês).

Essendo perfettissimo, insegnava Platone, Dio è autosufficiente (6), e dunque immutabile e senza affetti. È un’assurdità, ribadiva Aristotele, dire di amare Zeus, perché l’amore suppone corrispondenza e Zeus non può amare (7). All’Artemide euripidea sono proibite le lacrime (8), vietate del resto, secondo Ovidio, al volto di qualsiasi altra divinità (9).

È noto che nei primi secoli dell’era volgare lo stoicismo, grazie anche ai suoi numerosi predicatori ambulanti, argutamente definiti “i frati mendicanti dell’antichità”, era diventata la filosofia più comune seguita dall’uomo della strada come dal dotto.

È noto pure il disprezzo stoico per ogni passione (pathos), intesa come “moto irrazionale (alogos) e innaturale dell’anima” (10) e come istinto eccedente la misura (hormê pleonazousa) (11). Il pathos è concepito come un affezione che, venendo dall’esterno, altera l’equilibrio interiore dell’uomo limitando, e annullando, la libera autodeterminazione di quella ragione (logos) cui spetta il dominio, la direzione e lo sviluppo della persona umana.

Malattie dell’anima, le passioni, sono anche peccato (12). Ovvio quindi il dovere di lottare contro di esse (13) e di sopprimerle con l’aiuto della ragione (14).

Nessuna passione è lecita. Neppure la misericordia (elos), che appartiene a una delle quattro passioni principali (15) e cioè al dolore (lypê), e che consiste appunto in un dolore che ci prende nel vedere un individuo colpito, senza sua colpa, da un male che temiamo possa quanto prima abbattersi anche su di noi (16).

Di qui certi precetti sconcertanti di Zenone, riferiti a Cicerone: Riteneva che il sapiente non debba nulla puramente opinare, di nulla pentirsi, mai mutare il suo parere”; “Mai il sapiente è mosso da benevolenza, mai perdona ad alcun delitto; non può avere misericordia se non chi sia stolto e leggero; non è da uomo lasciarsi muovere e placare con preghiere” (17).

Essendo una debolezza d’animo, la misericordia deve essere schivata dal sapiente. Il quale farà tutto quello che sogliono fare gli uomini che hanno compassione. Potrà anche giungere a piangere con chi soffre. Ma, gli raccomanda Epitteto, “bada, però, di non piangere anche dentro di te (esôthe)” (18). In altri termini, resta interiormente impassibile. È l’apatheia che, secondo gli stoici, costituiva la suprema perfezione posseduta da Dio e bramata dagli uomini saggi (19).

Stoltezza, dunque, per i pagani Cristo morto in croce per l’amore misericordioso che Dio nutre per gli uomini.

NOTE

1. Sant’Ilario di Poitiers, De Trinitate 3, 24; PL 10, 93 – trad. G. Tezzo

2. Gorgia, Encomio di Elena, fr. B 11,1 (Diels)

3. Aristotele, Etica Nicomachea 6, 7, 1141°

4. Aezio, Placita 1,2

5. Platone, Convivio 204a

6. Platone, Filebo

7. Aristotele, Grande etica 2,11,1208b

8. Euripide, Ippolito 1396

9. Ovidio, Metamorphoses 2, 621

10. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 7, 110

11. Cicerone, Academica posteriora 1,38

12. Plutarco, De virtute morali 10, 449 d

13. Aristone, in Clemente Alessandrino, Stromata 2, 20, 108, 172 (PG 8, 1052)

14. Cicerone, Academica posteriora 1,38

15. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 7,110

16. Aristotele, Retorica 2, 8, 1385b 13

17. Cicerone, Pro Murena 61 (SVF I, 54, 214)

18. Epitteto, Manuale 16

19. Epitteto, Diatribe 4, 3, 7;

il seguito e la conclusione di questo studio subito sotto;

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