La liturgia della vita in san Paolo
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LA VITA IN CRISTO E NELLA CHIESA
Mensile di formazione liturgica e Informazione
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La liturgia della vita in san Paolo
San Paolo è ancora vivo oggi e continua a formare le generazioni cristiane, specialmente quando nella liturgia della Chiesa si leggono le sue lettere o i brani degli Atti degli Apostoli che lo riguardano. Dio infatti ha preparato l’apostolo per una missione speciale che ha oltrepassato la propria vicenda personale. Quando il giovane Saulo di Tarso, terminata la prima formazione, giungeva a Gerusalemme per seguire le lezioni di Gamaliele (cf At 22,3), il più dotto scriba fariseo del momento, si è trovato di fronte alla spianata del tempio consacrato a Dio dai suoi padri. Le lezioni dei rabbi erano infatti impartite sotto i portici o nelle sale degli edifici che occupavano la parte centrale della spianata. Il tempio, posto a oriente, era il cuore della città santa verso cui si volgeva il desiderio di ogni israelita. Saulo lo avrà certamente ammirato nell’imponenza della costruzione, delimitata da un duplice portico e suddivisa con un quadruplice ordine di cortili; il santuario, il cui tetto era ricoperto d’oro, occupava la parte centrale. Per le grandi feste annuali, i pellegrini, venuti da ogni direzione, coprivano le strade della Palestina e salivano al tempio cantando i salmi delle ascensioni (Salmi 120-134). Saulo vibrava a questo ritmo e partecipava alle splendide liturgie nel tempio. Egli imparava il valore delle pratiche cultuali del suo popolo, il riposo sabbatico, l’ufficio sinagogale, il digiuno del giorno dell’espiazione, le preghiere che accompagnavano gli atti quotidiani, l’uso dei filattèri e delle frange, i digiuni spontanei, le offerte e i voti. La fede in Dio e lo studio della Torah impregnano tutti i momenti e tutte le azioni della sua esistenza, seguendo lo schema rituale della separazione dalla realtà profana. Il Signore lo preparava, attraverso la pratica minuziosa di tutte le prescrizioni rituali, nella lunga esperienza di contatto con la liturgia del tempio di Gerusalemme, a incontrare Gesù Cristo, che è «più grande del tempio» e a interiorizzare la sua passione per Dio in una continua liturgia della vita. Con il Nuovo Testamento la funzione del tempio viene infatti trasferita alla persona di Gesù Cristo, morto e risorto. Il «nuovo tempio» è il suo corpo (cf Gv 2,21). Nella rivelazione della via di Damasco, Saulo ne resterà folgorato.
«Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Statua marmorea dell’apostolo Paolo situata in Piazza San Pietro (Roma).
La «separazione» di Paolo I molti dettagli della conversione trasfigurante di Saulo, raccontata per tre volte nel libro degli Atti degli Apostoli (cf At 9; 22; 26), vengono confermati nelle lettere dell’apostolo ma con più sobrietà. Egli comprende che la sua vocazione è opera di Dio, una pura e immeritata grazia donata a un uomo che si autogiustificava con la pratica delle prescrizioni ma che in realtà era un «bestemmiatore, persecutore e violento» (1 Tm 1,13). Dio ha scelto e chiamato un persecutore per farne un apostolo. Questa chiamata è una libera decisione del Signore, per suo puro beneplacito. Non è un’improvvisazione perché l’amore di Dio per noi viene sempre da molto lontano (cf Rm 8,28-30). Nelle lettere paoline l’azione del «chiamare», in greco kalein, ha sempre come soggetto Dio stesso. Paolo parla della sua vocazione in termini teologici e cultuali: «Quando Colui che mi mise a parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò per mezzo della sua grazia si compiacque (eudokésen) di rivelare suo Figlio in me affinché lo annunziassi in mezzo alle nazioni, subito non consultai carne e sangue…» (Gal 1,15-16). Il verbo usato dall’apostolo «mettere a parte- separare» è significativo nella vocazione particolare di Paolo. Allo stesso modo si pre- senta all’inizio della lettera ai Romani: «Paolo, apostolo per vocazione, messo a parte per il Vangelo di Dio» (Rm 1,1). Dio si è riservato Paolo come nella liturgia del tempio si riservavano per lui le offerte e le primizie. Nell’Antico Testamento questo verbo ha spesso un senso cultuale e viene applicato sia alle vittime scelte per i sacrifici (cf Es 29,26-27) sia ai leviti, messi a parte per il servizio liturgico (cf Nm 8- 11), sia per tutto il popolo eletto: «Mi sarete consacrati perché io sono Santo, il Signore vostro Dio che vi ho messi a parte da tutte le nazioni per appartenere a me» (Lv 20,26). Paolo è stato sottratto a un modo comune di vivere per essere introdotto in una speciale relazione con Dio. Il contesto però fa comprendere che non si tratta di una segregazione perché l’elezione dell’apostolo porta con sé la missione di introdurre altri, specialmente tra i pagani, nella stessa relazione di alleanza con Dio, in Cristo Gesù. La vocazione di Paolo non si deve però concepire in chiave «amministrativa», come se Dio gli assegnasse una funzione per il bene di altri, ma si deve comprendere come una grazia personale, interna, la quale poi rende possibile una missione rivolta ad altre persone. È una testimonianza, una liturgia della vita che richiede l’impegno di tutta la persona e che scaturisce da un’esperienza di relazione personale e profonda con Cristo. Paolo ha ricevuto «in se stesso» la rivelazione del Figlio di Dio ed è stato introdotto in un rapporto intimo con lui, fino alla completa conformazione al suo mistero. Infatti egli afferma: «Dio che disse: dalle tenebre rifulga la luce, rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6). Dio fece brillare la luce di Cristo nel cuore di Paolo, cioè in quel luogo che nell’antropologia biblica indica la sede dell’interiorità, della libertà e della scelta cosciente. Per questo vi è un rapporto profondo tra la rivelazione interna e la missione apostolica. La rivelazione del Figlio di Dio gli fu data, dice, «affinché lo evangelizzassi fra le nazioni » (Gal 1,16), cioè ne porti il lieto annunzio a tutti, in modo che tutti possano entrare nell’economia della nuova e definitiva alleanza e «partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, a essere partecipi della promessa» (Ef 3,6). Il rapporto vivo e dinamico con la persona del Figlio di Dio inaugura la liturgia della vita. Non si tratta più soltanto di una relazione «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Statua marmorea dell’apostolo Paolo situata in Piazza San Pietro (Roma). cultuale, come nel tempio di Gerusalemme, ma esistenziale che trasforma tutti i momenti della quotidianità. Si capovolge lo schema della sacralità tipica del tempio. Il contatto con Dio non avviene più per separazioni ma, in forza dell’Incarnazione, per immersione nel mistero di Cristo. Paolo si è sentito afferrato da Cristo Gesù (cf Fil 3,12) e la sua scala di valori, anche nell’ambito religioso, si è capovolta. «Le cose che per me erano vantaggi personali, le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della relazione con Cristo Gesù mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo…» (Fil 3,7-8). Per mantenersi unito a Cristo, Paolo si mette con tutte le sue forze al servizio del prossimo, nell’evangelizzazione. La carità di Cristo sperimentata lo sospinge a dare la vita per il Vangelo. Spostamento della terminologia cultuale
Attingendo dalla sua prolungata esperienza nel tempio, l’apostolo, divenuto cristiano, opera un radicale cambiamento di prospettiva. Egli usa la terminologia tipica, propria del culto, e la applica all’esperienza della vita cristiana. Paolo, per esempio, riferendosi forse al rituale dell’agnello sacrificato per l’espiazione dei peccati (cf Lv 4,24; Is 53,10) indica Cristo come «oblazione e sacrificio di soave odore» (Ef 5,2). La fragranza delle vittime sacrificali significava l’accoglienza dei sacrifici da parte di Dio. Cristo è la «nostra Pasqua» cioè «l’agnello pasquale» che offre una novità di vita per quanti sono chiamati a «celebrare» la Pasqua con «azzimi nuovi» e non con «lievito vecchio » (cf 1 Cor 5,7-8; Gal 5,9). Tutto ciò che è salvifico per il popolo, nella prima alleanza, si compie ora, nella persona di Gesù. Anche se Paolo scrive le sue lettere quando il tempio di Gerusalemme non era ancora stato distrutto (70 d.C.) egli definisce il corpo dei cristiani come «tempio di Dio» (cf 1 Cor 3,16-17; 6,18-20; 2 Cor 6,16; Ef 2,21). Il processo di personalizzazione del tempio si verifica, da una prospettiva cristologica, anche nella teologia giovannea (cf Gv 2,19-21). Per esprimere questa realtà l’apostolo opera uno spostamento di terminologia a volte sorprendente e molto ardito. Anche la prima lettera di Pietro è sulla stessa linea. Per Paolo la liturgia diventa il quadro «naturale » in cui si svolge la vita cristiana in tutta la sua sacralità. Egli applica questa prospettiva anzitutto a se stesso e descrive il suo apostolato con un linguaggio cultuale. A volte il verbo «servire» (douleuein), in determinati contesti, sembra richiamare il servizio liturgico (cf 1 Ts 1,9-10; Gal 4,8-11). Paolo liturgo di Cristo
Nell’evangelizzazione Paolo è «liturgo di Cristo» (cf Rm 15,16) che rende culto a Dio con la propria esistenza (cf Rm 1,9-10; 2 Tm 1,3). Anche se né Gesù Cristo, né Paolo hanno personalmente compiuto dei sacrifici nel tempio di Gerusalemme, la loro stessa esistenza viene descritta, nell’epistolario paolino, con linguaggio cultuale. L’apostolo ha caricato di senso liturgico la vita cristiana. Senza far distinzione tra azioni ministeriali e comuni, paragona la stessa conclusione della propria vita alla libagione sacrificale: il suo sangue «sta per esser offerto in libagione » (Fil 2,17; 2 Tm 4,6). Il suo ministero apostolico è un culto (latreuo) che egli presta «a Dio nello Spirito» (cf Rm 1,9). Egli si qualifica «protagonista di un’attività liturgica» (leitourgon: Rm 15,16) nel suo ministero tra i Gentili. La raccolta di fondi praticata nelle comunità greche a favore della Chiesa di Gerusalemme è chiamata «attività liturgica» (leitourgia: 2 Cor 9,12) ed Epafrodito, inviato dai Filippesi per assistere Paolo nei disagi della prigionia, prestandogli quegli umili servizi di cui l’apostolo in carcere aveva bisogno, viene designato come «protagonista di un’azione liturgica » (leitourgon: Fil 2,25). Il punto di partenza di tutta la vita cristiana, sia per quanto riguarda Paolo personalmente come i destinatari delle sue lettere, è il battesimo come immersione nella morte e nella risurrezione di Gesù (cf Rm 6,1-11).La vita cristiana come liturgia
La realtà battesimale pone il cristiano in una situazione completamente nuova che permette all’apostolo di trasferire tutti i termini propri del culto nel tempio di Gerusalemme alla vita cristiana. Questo spostamento di terminologia cultuale è evidente in Rm 12,1-2: «Vi esorto, dunque, fratelli, per la bontà di Dio, a presentare i vostri corpi come un’offerta sacrificale (thysian) vivente in continuazione, santa, gradita a Dio: è il vostro culto (latreian) logico. Non conformatevi al mondo presente, ma trasformatevi in continuazione mediante un rinnovamento attivo della vostra mente, in modo da poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, gradito [a Dio] e perfetto». Dopo aver spiegato nella prima parte della lettera ai Romani la situazione nuova della vita cristiana, Paolo conclude invitando i credenti, in nome di tutta la misericordia sperimentata, a presentare a Dio la loro vita, cioè i propri corpi (somata) nella concretezza relazionale della persona, in riferimento al tempo e allo spazio. Quest’offerta dovrà essere irreversibile, come la vittima sacrificale che veniva uccisa nel tempio, ma nello stesso tempo essere una vittima che vive, come l’agnello immolato e risorto dell’Apocalisse. Nel caso dei cristiani la radicalità dell’offerta costituisce, secondo Paolo, un culto vero e proprio (latreian) che dà senso alla vita. Questa spinta oblativa, vissuta nei particolari concreti della vita quotidiana, è una liturgia, secondo l’insegnamento dell’apostolo. Per attuare questa «liturgia della vita» è necessario però prendere le distanze dalla mentalità del mondo nei suoi aspetti inquinanti e peccaminosi. La partecipazione alla vitalità del Cristo risorto, con il dono dello Spirito, frutto del battesimo, spingerà il cristiano a una trasformazione continuata e progressiva nella linea dei valori di Cristo e a un rinnovamento costante dei suoi sistemi mentali per renderlo capace di un discernimento aperto alla volontà di Dio, nel dettaglio della vita quotidiana, senza seguire lo schema di questo mondo. Paolo attribuisce questa qualità liturgica a tutto quello che è, e a tutto quello che fa, ma trova anche momenti e spazi qualificanti di preghiera per se stesso e per le comunità cristiane, culminanti nell’Eucaristia (cf 1 Cor 11,23-34). L’epistolario paolino è disseminato di inni, dossologie, formule di fede, benedizioni e acclamazioni che evocano il contesto ecclesiale delle comunità a cui sono destinate le lettere e la loro vitalità liturgica. I frammenti liturgici sono usati da san Paolo in modo creativo e vivace e ogni lettera inizia con una benedizione introduttoria, adattata alle specifiche necessità delle comunità cristiane. La sacralità stupenda che era espressa nel rapporto con Dio nel tempio, le preghiere della sinagoga, il canto dei salmi, le feste del giudaismo e tutto il complesso rituale della prima alleanza, trova ora il suo compimento in Cristo Gesù. Per mezzo di lui e nella forza dello Spirito sale a Dio Padre il nostro amen, in una continua liturgia della vita. Regina Cesarato

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La liturgia della vita in san paolo.. Great!
Ciao, sì è un tema molto importante e di grande aiuto, io amo molto san Paolo ed è sempre un grande insegnamento ;
buonanotte