XII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

XII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO  dans LETTURE DI SAN PAOLO NELLA LITURGIA DEL GIORNO ♥♥♥ 81405,1180057100,1
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XII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

ho cercato un commento alla liturgia di domani, con particolare riferimento al pensiero di Paolo, ho trovato questa bella presentazione che mi è piaciuta e mi ha edificato – su internet –  di Don Roberto Atzori della Parrocchia di San Giuseppe – Cagliari e ve la propongo;

DOMENICA 22 GIUGNO 2008

Anno A

Prima lettura: Geremia 20,10-13 

    Sentivo la calunnia di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo». Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta». Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile.

    Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa! Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori. 

commento:

v. La pericope fa parte delle cosiddette «confessioni di Geremia», brani considerati un tempo autobiografici, ma di redazione probabilmente post-esilica. Chi parla in queste composizioni è un «io» liturgico, mediatore cultuale tra la nazione e Dio: il tormento che vi si esprime è non tanto individuale, quanto collettivo, di tutto il popolo. Nella quinta confessione (Ger 20,7-18) i vv. 10-13 sono forse dovuti a un secondo redattore, e separano il grido di disperazione (vv. 7-9) dal lamento (vv. 14-18).

    Il tema generale è la persecuzione a causa della parola, che colpisce il profeta come figura esemplare di tutta la comunità dei pii giudei. 

    v. 10 — La folla (molti, rabbîm) cospira contro il profeta e ne spia le debolezze per sopraffarlo. Tra la folla sono anche gli «amici», o piuttosto dei presunti amici: la stessa comunità si rivolta contro il giusto.

    v. 11 — Il giusto gode tuttavia della protezione del Signore, che sta al suo fianco come una guardia del corpo (gibbôr). Lo schema seguito è quello delle lamentazioni dei Salmi, in cui all’esposizione del caso e al lamento (vv. 7-9, la persecuzione) segue la soluzione liberatoria e il rendimento di grazie (vv. 10-13).

    v. 12 — La preghiera esprime la fiducia del giusto nel Signore, che conosce e scruta in profondità il suo animo. Viene invocata non tanto la «vendetta», quanto la «liberazione» data dalla vittoria sui nemici, gli empi: è il senso della radice naqam riferita a Dio.

    v. 13 — Il versetto conclude la prima parte della «confessione» con un invito alla lode, che esprime la certezza di essere esauditi.

    Gli elementi tipici della lamentazione fanno pensare non tanto a un discorso di Geremia in prima persona, quanto a una interpretazione della sua storia personale nei termini di una opposizione tra pii ed empi, dove al profeta si sostituisce la figura emblematica del «giusto» e del «povero». Un primo nucleo è probabilmente costituito dall’esperienza di Geremia, rielaborata dal redattore deuteronomistico durante l’esilio, radicalizzata poi nella redazione finale post-esilica nel quadro del conflitto tra pii ed empi. 

Seconda lettura: Romani 5,12-15 

    Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato.

Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

    Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti.

commento: 

v La lettera ai Romani espone la triplice liberazione — dalla morte, dal peccato e dalla legge — conseguenza della giustificazione tramite Gesù Cristo. Il rapporto tra il peccato e la morte, e la vittoria della vita in Cristo, vengono spiegati in Rm 5,12-21 attraverso il confronto tra Adamo e Gesù, e tra uno e molti/tutti. Il versetto centrale del brano, cuore del ragionamento di Paolo, è il 17, che afferma con forza la sovrabbondanza della grazia rispetto al dominio della morte.

    I versetti 12-14 presentano la situazione di fatto: il peccato, e attraverso il peccato la morte, è entrato nel mondo, perché tutti hanno peccato, a somiglianza di Adamo (v. 12). Pur non essendo imputabile finché non c’era la Legge, il peccato era tuttavia nel mondo (v. 13), e la morte dominò anche su quelli che non avevano peccato.

    La «trasgressione» (paràbosis) di Adamo è riferita al precetto; il «peccato» (amartia, al singolare) è un atteggiamento negativo di fondo nei confronti della grazia, la rottura del rapporto personale di amicizia con Dio, qualcosa di più della semplice disobbedienza. Non è tanto una realtà ontologica, ereditata da Adamo (come ha dimostrato S. Lyonnet, l’interpretazione tradizionale di Agostino si basava sulla traduzione errata della Vulgata: «efhô pantes èmarton» reso con «in quo omnes peccaverunt», cioè «tutti hanno peccato in Adamo» invece che «dato il fatto che tutti hanno peccato»). Si tratta piuttosto della condizione comune di peccaminosità che Paolo rileva come un dato di fatto, la situazione cioè in cui tutti si trovano e di cui Adamo è il primo esponente, «immagine» o «tipo» di Colui che doveva venire.

    Dal v. 15 si sviluppa la tipologia tra Adamo e Cristo, non come semplice parallelo ma come superamento e sovrabbondanza. Uno solo, Adamo, il primo ad avere disobbedito, è modello dei molti che hanno peccato, sia prima che dopo la Legge di Mosè; uno solo, Cristo, è veicolo della grazia sovrabbondante che si riversa sui molti, ben superiore («molto di più») che in Adamo. Ciò che preme qui a Paolo non è la dottrina del peccato originale, ma l’unicità di Gesù Cristo e della sua opera salvifica, la sovrabbondanza della grazia che ribalta il giudizio di condanna e vince il peccato e la morte. 

Vangelo: Matteo 10,26-33

    In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:  «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.  E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.  Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli». 

Esegesi

    Il capitolo 10 di Matteo è dedicato al secondo dei cinque grandi discorsi che costituiscono i pilastri portanti di questo Vangelo. È il cosiddetto «discorso della missione», che a partire dalla vocazione dei dodici apostoli indica le direttive fondamentali per la formazione e la missione della Chiesa delle origini. Si tratta di una raccolta di insegnamenti di

Gesù, forse pronunciati in occasioni diverse, e qui ordinati a costituire un vero e proprio programma di evangelizzazione.

    La persecuzione preannunciata da Gesù è già in atto quando si compie la stesura scritta del Vangelo che la tradizione attribuisce all’apostolo Matteo. L’insegnamento qui espresso fa i conti quindi con una realtà fatta di pericoli, lotte, contrapposizioni violente, e tende a rafforzare il coraggio dei testimoni con un messaggio di speranza e di fiducia.

    vv. 26-27— «Non abbiate paura» è un ritornello ricorrente (v. 26; 28;31). La persecuzione non deve indurre i testimoni al silenzio, al contrario: quello che ora, prima della sua glorificazione, Gesù insegna loro nelle tenebre (il cosiddetto «segreto messianico») dovrà essere proclamato apertamente a gran voce, gridato sui tetti. Il cristianesimo non è una religione esoterica e iniziatica; non ci sono verità segrete o nascoste, riservate a pochi eletti. La manifestazione del Figlio dell’uomo, nella pienezza dei tempi, è una rivelazione universale che deve essere portata a conoscenza di tutti. Si sente qui l’eco della polemica contro le correnti gnostiche che tendevano ad avvicinare il cristianesimo ai culti misterici.

    vv. 28-31 — I persecutori non hanno in realtà alcun potere sui cristiani: essi uccidono il corpo, ma non l’anima. Il nemico non è chi detiene la forza della spada; il nemico vero è il peccato, che allontana dalla comunione con il Cristo. Non si tratta di una forma di dualismo che sottovaluti la vita corporea e naturale a favore di uno spiritualismo disincarnato, ma di una scala di valori che va rispettata perché vi sia una vita armonica. Il peccato fa perire l’anima e il corpo nella Geenna; il Padre protegge, con l’anima, anche il corpo: conta perfino i capelli del nostro capo e non lascia cadere neppure un passero. Coloro che confidano nel Padre non hanno quindi nulla da temere.

    vv. 32-33 — La testimonianza resa dai cristiani deve essere coraggiosa e sincera: una scelta di vita, senza tentennamenti né compromessi. «Riconoscere» Gesù davanti agli uomini vuol dire confessare apertamente la fede, nonostante la persecuzione; «essere riconosciuti» da lui davanti al Padre che è nei cieli significa essere accolti nella gloria del suo regno.

LUNEDÌ 23 GIUGNO 2008

UFFICIO DELLE LETTURE

San Gregorio di Nissa parla di San Paolo nel presentare il suo insegnamento

Seconda Lettura
Dal trattato «L’ideale perfetto del cristiano» di san Gregorio di Nissa, vescovo (PG 46, 254-255)Il cristiano è un altro Cristo

Paolo ha conosciuto chi è Cristo molto più a fondo di tutti e con la sua condotta ha detto chiaramente come deve essere colui che da Cristo ha preso il suo nome. Lo ha imitato con tanta accuratezza da mostrare chiaramente in se stesso i lineamenti di Cristo e trasformare i sentimenti del proprio cuore in quelli del cuore di Cristo, tanto da non sembrare più lui a parlare. Paolo parlava ma era Cristo che parlava in lui. Sentiamo dalla sua stessa bocca come avesse chiara coscienza di questa sua prerogativa: «Voi volete una prova di colui che parla in me, Cristo» (cfr. 2 Cor 13, 3) e ancora: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Egli ci ha mostrato quale forza abbia questo nome di Cristo, quando ha detto che è la forza e la sapienza di Dio, quando lo ha chiamato pace e luce inaccessibile, nella quale abita Dio, espiazione e redenzione, e grande sacerdote, e Pasqua, e propiziazione delle anime, splendore della gloria e immagine della sostanza divina, creatore dei secoli, cibo e bevanda spirituale, pietra e acqua, fondamento della fede, pietra angolare, immagine del Dio invisibile, e sommo Dio, capo del corpo della Chiesa, principio della nuova creazione, primizia di coloro che si sono addormentati, esemplare dei risorti e primogenito fra molti fratelli, mediatore tra Dio e gli uomini, Figlio unigenito coronato di onore e di gloria, Signore della gloria e principio di ogni cosa, re di giustizia, e inoltre re della pace, re di tutti i re, che ha il possesso di un regno non limitato da alcun confine. Lo ha designato con queste e simili denominazioni, tanto numerose che non è facile contarle. Se tutte queste espressioni si raffrontassero fra loro e si cogliesse il significato di ognuna di esse, ci mostrerebbero la forza mirabile del nome di Cristo e della sua maestà, che non può essere spiegata con parole. Ci svelerebbero però solo quanto può essere compreso dal nostro cuore e dalla nostra intelligenza. La bontà del Signore nostro, dunque, ci ha resi partecipi di questo nome che è il primo e più grande e più divino fra tutti, e noi, fregiati del nome di Cristo, ci diciamo «cristiani». Ne consegue necessariamente che tutti i concetti, compresi in questo vocabolo, si possono ugualmente vedere espressi in qualche modo nel nome che portiamo noi. E perché allora non sembri che ci chiamiamo falsamente «cristiani» è necessario che la nostra vita ne offre conferma e testimonianza.

MARTEDÌ 24 GIUGNO 2008

NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA

SOLENNITA’

 dans LETTURE DI SAN PAOLO NELLA LITURGIA DEL GIORNO ♥♥♥

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MISSALE ROMANUM VETUS ORDO

MESSA VESPERTINA DELLA VIGILIA

LETTURE: Ger 1,4-10; Sal 70; 1 Pt 1,8-12; Lc 1, 5-17

MESSA DEL GIORNO

LETTURE: Is 49, 1-6; Sal 138; At 13, 22-26; Lc 1, 57-66. 80

PRIMI VESPRI E SECONDI VESPRI

Lettura Breve At 13, 23-25
Dalla discendenza di Davide, secondo la promessa, Dio trasse per Israele un salvatore, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di penitenza a tutto il popolo d’Israele. Diceva Giovanni sul finire della sua missione: Io non sono ciò che voi pensate che io sia! Ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di sciogliere i sandali.

GIOVEDÌ 26  GIUGNO 2008 

UFFICIO DELLE LETTURE 

citazione della 1Tm 

Seconda Lettura
Dalle «Omelie» di san Gregorio di Nissa, vescovo 
(Om. 6, sulle beatitudini; PG 44, 1263-1266)

Quanto accade a coloro che dalla vetta di un’alta montagna guardano in basso un mare profondo e insondabile, avviene anche alla mia mente quando dall’altezza della parola del Signore, guardo la profondità di certi concetti. In molte località marittime si può vedere, dalla parte rivolta al mare, un monte quasi spaccato a metà e corroso da cima a fondo. Esso ha nella parte più alta un picco che incombe sulla profondità del mare. Orbene l’impressione di chi volge giù lo sguardo sull’abisso impenetrabile da quell’altezza da vertigini è quella stessa mia quando spingo in basso gli occhi dall’altezza del misterioso detto del Signore: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8). Dio qui è proposto alla contemplazione di coloro che hanno purificato il loro cuore. Ma «Dio nessuno l’ha mai visto» (Gv 1, 18), come afferma il grande Giovanni. Paolo con la sua sublime intelligenza conferma e aggiunge: «Nessuno fra gli uomini lo ha mai visto, né lo può vedere» (1 Tm 6, 16). Questa è quella roccia levigata, corrosa e scoscesa che non offre in se stessa alcun appoggio o sostegno per i concetti della nostra intelligenza. Anche Mosè nelle sue affermazioni l’ha detta impraticabile in modo che la nostra mente non vi può mai accedere per quanto si sforzi di aggrapparsi a qualcosa e guadagnare la cima. C’è un detto che taglia a picco la nostra roccia: Non vi è nessuno che possa vedere Dio e vivere (cfr. Es 33, 20). Comprendi ora la vertigine della nostra intelligenza incombente sulla profondità degli argomenti trattati in questo discorso? Ma vedere Dio costituisce la vita eterna. Se Dio è vita, chi non vede Dio non vede la vita. A quali strettezze è mai ridotta la speranza degli uomini! Il Signore però solleva e sostiene i cuori che vacillano, come ha agito con Pietro, che stava per annegare. Egli lo rimise nuovamente in piedi sull’acqua come su un pavimento solido e resistente. Se trovandoci pencolanti sull’abisso di queste speculazioni si accosterà anche a noi la mano del Verbo, si poserà sull’intelligenza e ci farà vedere il vero significato delle cose, saremo allora liberi dal timore e seguiremo la sua via. Ma purché il nostro cuore sia puro. Dice, infatti: «Beati coloro che hanno un cuore puro, perché essi vedranno Dio». 

LODI 

Lettura Breve   Rm 8, 18-21
18. Io ritengo, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. 19. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20. essa infatti è stata sottomessa alla caducità — non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa — e nutre la speranza 21. di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 

VESPRI 

Lettura breve   Cfr. Col 1, 23
23. Rimanete fondati e fermi nella fede e non vi lasciate allontanare dalla speranza promessa nel Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunziato ad ogni creatura sotto il cielo. 

VENERDÌ 27 GIUGNO 2008 

UFFICIO DELLE LETTURE 

San Gregorio di Nissa, conferma il proprio pensiero con quello di Paolo (e di Mosè) 

Seconda Lettura
Dalle «Omelie» di san Gregorio di Nissa, vescovo
(Om. 6, sulle beatitudini; PG 44, 1266-1267)
La promessa di Dio è certamente tanto grande da superare l’estremo limite della felicità. Quale altro bene infatti si può desiderare, quando tutto si ha in colui che si vede? Infatti vedere, nell’uso della Scrittura, ha lo stesso significato che possedere, come quel detto: «Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme» (Sal 127,5), dove il verbo significa la stessa cosa, che «possa tu avere». E così pure: Sia tolto di mezzo l’empio perché non vedrà la gloria del Signore (cfr. Is 26,10), dove il Profeta per «non vedere» intende «non essere partecipe». Quindi colui che vede Dio, per il fatto stesso che lo vede, ha ottenuto tutti i beni, una vita senza fine, l’incorruttibilità eterna, la beatitudine immortale, un regno senza fine, una gioia perenne, la vera luce, una voce spirituale e dolce, una gloria inaccessibile, una perpetua esultanza, insomma ogni bene. In verità quello che vien proposto alla speranza nella promessa della felicità, ha queste immense proporzioni. Ma siccome è già stato prima dimostrato che il modo di vedere Dio si attua alla condizione di avere il cuore puro, in questo nuovamente la mia intelligenza è preda delle vertigini. La purità del cuore infatti non è forse fra quelle virtù che non si possono conseguire, perché superano e oltrepassano la nostra natura? Se Dio si può vedere solo attraverso questa lente di purità e se d’altro canto Mosè e Paolo non lo hanno veduto perché affermano che Dio non può essere visto né da loro né da alcun altro, ciò che il Verbo propone alla beatitudine sembra cosa né mai effettuata né effettuabile. E quale vantaggio possiamo avere noi dal fatto di conoscere a quale condizione si possa vedere Dio, se poi mancano le forze per raggiungere quanto si è scoperto? Sarebbe infatti come se si dicesse che è cosa meravigliosa soggiornare in cielo perché là si vedono cose che qui sulla terra non si possono vedere. Se con le parole si potesse dimostrare un qualche modo di attuare un viaggio in cielo, allora sarebbe utile agli ascoltatori apprendere che è felicità grande abitare in cielo. Ma sino a quando non potrà essere attuata questa ascesa al cielo, quale vantaggio può dare la conoscenza della felicità celeste? Non costituisce piuttosto un tormento e una delusione, perché ci rende consapevoli di quali beni siamo stati privati, per il fatto che ci è impedito di salire al cielo? E perché allora il Signore ci esorta ad una cosa che supera la nostra natura e ci dà un precetto che va oltre le forze umane? Ma le cose non stanno così, perché egli non comanda di diventare uccelli a coloro ai quali non ha fornito le ali, né di vivere sott’acqua a coloro per i quali ha stabilito una vita terrestre. Se dunque la legge in tutti gli altri esseri è adatta alle forze di coloro che la ricevono e non costringe a nessuna impresa che superi la natura, comprenderemo senz’altro anche questo dal fatto che è compatibile con le nostre risorse e che non si deve disperare di raggiungere la felicità promessa. Capiremo ancora che né Giovanni, né Paolo, né Mosè, né altri sono stati privati di questa sublime felicità, che proviene dalla visione di Dio. Non colui che disse: «Mi resta solo la corona di giustizia, che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà» (2 Tm 4, 8). Neppure colui che posò il capo sul cuore di Gesù, o colui che udì dalla voce divina: «Ti ho conosciuto per nome» (Es 33, 17). Se perciò coloro che hanno affermato che la visione di Dio è sopra le nostre forze, sono anch’essi beati, e se la beatitudine viene dalla visione di Dio, e se chi ha il cuore puro può vedere Dio, certo la purezza, per mezzo della quale si può raggiungere la beatitudine, non è una virtù impossibile. 

LODI 

Lettura Breve   Gal 2, 20
20. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. 

VESPRI 

Lettura breve   Rm 8, 1-2
1. Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. 2. Poiché la legge dello Spirito che da’ vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. 

SABATO 28 GIUGNO 

SANT’ IRENEO (m) 
Vescovo e martire
 

LODI 

Lettura Breve   2 Cor 1, 3-5
3. Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione,4. il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. 5. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione.

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