Archive pour mai, 2008

San Giovanni Crisostomo: La debolezza di Dio è più forte della fortezza degli uomini (1Cor)

dal sito: 

http://www.prayerpreghiera.it/padri/padri.html

Dalle « Omelie sulla prima lettera ai Corinzi » di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 4,3.4; PG 61,34-36)
La debolezza di Dio è più forte della fortezza degli uomini

 

La croce ha esercitato la sua forza di attrazione su tutta la terra e lo ha fatto servendosi non di mezzi umanamente imponenti, ma dell’apporto di uomini poco dotati. Il discorso della croce non è fatto di parole vuote, ma di Dio, della vera religione, dell’ideale evangelico nella sua genuinità, del giudizio futuro. Fu questa dottrina che cambiò gli illetterati in dotti. Dai mezzi usati da Dio si vede come la stoltezza di Dio sia più saggia della sapienza degli uomini, e come la sua debolezza sia più forte della fortezza umana. In che senso più forte? Nel senso che la croce, nonostante gli uomini, si è affermata su tutto l’universo e ha attirato a sé tutti gli uomini. Molti hanno tentato di sopprimere il nome del Crocifisso, ma hanno ottenuto l’effetto contrario. Questo nome rifiorì sempre di più e si sviluppò con progresso crescente. I nemici invece sono periti e caduti in rovina. Erano vivi che facevano guerra a un morto, e ciononostante non l’hanno potuto vincere. Perciò quando un pagano dice a un cristiano che è fuori della vita, dice una stoltezza. Quando mi dice che sono stolto per la mia fede, mi rende persuaso che sono mille volte più saggio di uno che si ritiene sapiente. E quando mi pensa debole non si accorge che il debole è lui. I filosofi, i re e, per così dire, tutto il mondo, che si perde in mille faccende, non possono nemmeno immaginare ciò che dei pubblicani e dei pescatori poterono fare con la grazia di Dio. Pensando a questo fatto, Paolo esclamava: « Ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini » (1Cor 1,25). Questa frase è chiaramente divina. Infatti come poteva venire in mente a dodici poveri uomini, e per di più ignoranti, che avevano passato la loro vita sui laghi e sui fiumi, di intraprendere una simile opera? Essi forse mai erano entrati in una città o in una piazza. E allora come potevano pensare di affrontare tutta la terra? Che fossero paurosi e pusillanimi l’afferma chiaramente chi scrisse la loro vita senza dissimulare nulla e senza nascondere i loro difetti, ciò che costituisce la miglior garanzia di veridicità di quanto asserisce.
Costui, dunque, racconta che quando Cristo fu arrestato dopo tanti miracoli compiuti, tutti gli apostoli fuggirono e il loro capo lo rinnegò. Come si spiega allora che tutti costoro, quando il Cristo era ancora in vita, non avevano saputo resistere a pochi giudici, mentre poi, giacendo lui morto e sepolto e, secondo gli increduli, non risorto, e quindi non in grado di parlare, avrebbero ricevuto da lui tanto coraggio da schierarsi vittoriosamente contro il mondo intero? Non avrebbero piuttosto dovuto dire: E adesso? Non ha potuto salvare se stesso, come potrà difendere noi? Non è stato capace di proteggere se stesso, come potrà tenderci la mano da morto? In vita non è riuscito a conquistare una sola nazione, e noi, col solo suo nome, dovremmo conquistare il mondo? Non sarebbe da folli non solo mettersi in simile impresa, ma perfino solo pensarla? È evidente perciò che, se non lo avessero visto risuscitato e non avessero avuto una prova inconfutabile della sua potenza, non si sarebbero esposti a tanto rischio.

DUE CRISTOLOGIE NELLA LETTERA AGLI EBREI?

DUE CRISTOLOGIE NELLA LETTERA AGLI EBREI?
Prof. Paolo Garuti

http://198.62.75.1/www1/ofm/sbf/Books/LA49/49237PG.pdf

sul Prof. Paolo Garuti:

http://ebaf.edu/index.php?Itemid=36&id=69&option=com_content&task=view

LETTERA AGLI EBREI – INTRODUZIONE

LETTERA AGLI EBREI

testo della lettera:

http://www.bibbiaedu.it/pls/bibbiaol/GestBibbia.Ricerca?Libro=Ebrei&Capitolo=1

stralcio dal libro: Reynier C., Trimille M., Vanhoye A., Lettere di Paolo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI); originale in francese, io scrivo, naturalmente dalla traduzione offerta dal libro;

di Vanhoye A., Lettera agli Ebrei

INTRODUZIONE

pagg. 399-401;

« Una splendida omelia

La lettera agli Ebrei, malgrado non sembri rivolgersi, stando al suo titolo tradizionale, a dei cristiani, è in realtà uno scritto molto importante per la fede e la vita cristiana. Non è una lettera, ma una magnifica omelia che, con tutta probabilità è stata esposta a viva voce in una o più assemblee domenicali. Dopo essere stata messa per iscritto, è stata poi inviata a una comunità lontana. Al testo venne aggiunto per l’occasione un breve biglietto di invio (13,22-25), e ciò ha fatto si che da allora fosse considerata come una lettera. Ma dal suo eloquente esordio (1,1-4) sino alla solenne conclusione (13,20-21), il testo ha conservato integralmente il proprio carattere di omelia fatta per essere declamata.

L’argomento dell’omelia è il sacerdozio di Cristo. L’autore spiega a noi cristiani che, per instaurare un rapporto di fiducia con Dio, abbiamo ormai un sacerdote, anzi un sommo sacerdote: Cristo. La passione di Cristo, in effetti, è stata un atto di mediazione sacerdotale, che ci ha aperto (Eb 10,20) per offrirci l’accesso a Dio. Il segreto di questo atto di mediazione è stata l’unione perfetta, nel cuore di Cristo, di due fedeltà a Dio, nell’obbedienza filiale e agli uomini, nella solidarietà fraterna, entrambe spinte fino alla morte. Il predicatore ha dedicato tutta la cura possibile alla composizione della sua omelia. Ha adottato una suddivisione in cinque parti. Annuncia il tema di ciascuna prima di cominciarla (in 2,17-18; 5,9-10; 10, 36-39; 12,13). La lunghezza delle cinque parti va dapprima in crescendo, dalla prima alla più consistente terza parte, per poi decrescere passando dalla terza all’ultima. Le suddivisioni nel nostro commento sono basate sulla scoperta di varie serie di indizi letterari di composizione perfettamente convergenti. Ecco lo schema del testo:

1, 1-4 – Esordio: Dio ci ha parlato

1,5 -2,18 - I Situazione di Cristo

3,1 – 5,10 – II Cristo, sommo sacerdote degno di fiducia e misericordioso

- 3,1 – 4,14 Cristo sommo sacerdote degno di fiducia e appello alla fede

- 4,15 – 5,10 Cristo sommo sacerdote pienamente umano

5,11 -10,39 – III Cristo, sommo sacerdote perfetto

- 5,11 – 6,20 Appello all’attenzione e alla generosità

- 7,1-28  Un somme sacerdote di genere diverso

- 8,1 – 9,28 Un offerta sacrificale ben differente

- 10,1-18 Un’offerta pienamente efficace

- 10,19-39 Appello all’unione vitale con cristo, sommo sacerdote

11,1 – 12,13 - IV La fede e la pazienza

- 11,1-40 Elogio della fede

- 12,1-13 Appello alla pazienza nelle prove

- 12,14 – 13,19 V Cercate la pace e la santità

13,20,21 -  Augurio finale

13,22-25 –  Biglietto d’invio

Si può notare che l’autore manifesta un gusto spiccato per le disposizioni simmetriche, in conformità con la tradizione letteraria biblica: Scrittore di grande talento, egli ha conferito bella armonia alla sua opera.

Dato che non inizia come una lettera, l’omelia non ci rivela né il nome dell’autore né quello dei destinatari, a differenza degli esordi delle lettere di Paolo o di Pietro. Ma fin dall’antichità la tradizione della chiesa orientale ha dichiarato con forza l’origine paolina dello scritto, pur ammettendo che non l’abbia redatta l’apostolo Paolo in persona (ad eccezione, forse, del biglietto finale). Lo stile, in effetti, manifesta un temperamento diverso da quello paolino. Nell’antichità, il testo greco che abbiamo è stato attribuito all’evangelista luca, a Barnaba e a Clemente Romano (cfr. Fil 4,3). I moderni aggiungono il nome di Apollo, dato che quanto sappiamo su questo personaggio (At 18,24-28; 1Cor 3,6) corrisponde all’identikit dell’autore desumibile dal testo.

La data di composizione non si può fissare con certezza, in mancanza di indizi decisivi. I pareri, molto divergenti, degli esegeti oscillano tra l’anno 55 e il 125. L’opinione che si accorda meglio con l’insieme dei dati è quella che colloca la lettera qualche tempo prima della distruzione di Gerusalemme, verificatasi nel 70 d.C.

Quanto ai destinatari, l’omelia ci indica che si tratta di cristiani convertiti da tempo (5,12; 13,7). Si sono mostrati molto generosi (10, 32-34) e lo sono ancora (6,9-10), ma, prima di affrontare nuove prove (12,1-7), hanno bisogno di essere stimolati, cosa che il predicatore non manca di fare con vigore (5,11-12; 6,11-12; 10,36; 12,3,13). La loro origine, giudea o pagana che sia, non è mai precisata e resta oggetto di discussioni. Tale indeterminatezza presenta un vantaggio: possiamo applicare più facilmente a noi stessi gli avvertimenti e gli incoraggiamenti dati dall’autore. »

Publié dans:Lettera agli Ebrei |on 1 mai, 2008 |Pas de commentaires »

San Giovanni Crisostomo: Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo (lettere)

dal sito: 

http://www.prayerpreghiera.it/padri/padri.html

Dalle « Omelie » di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 2, Panegirico di san Paolo, apostolo; PG 50,477-480)
Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo

Che cosa sia l’uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3,13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invitava tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: « Gioite e rallegratevi con me » (Fil 2,18). Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2Cor 12,10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2Cor 2,14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l’altrui freddezza e le ingiurie che l’onore, di cui invece noi siamo così avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa.
Godere dell’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l’ultimo di tutti, anzi un condannato però con l’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro.
Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l’unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi.
Il godere dell’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All’infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.

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