RITRATTO INTERIORE DI PAOLO di Biguzzi G. (2002)
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RITRATTO INTERIORE DI PAOLO di Biguzzi G. (2002)
Un ritratto interiore di Paolo deve distinguersi sia da quello fisico, sia da quello che si potrebbe chiamare storico. Cominciamo da questi. Il ritratto fisico di Paolo è tratteggiato in un apocrifo: «Piccolo di statura, testa calva, gambe curve, corpo ben formato, sopracciglia congiunte, naso un po’ sporgente, pieno di bontà. Alle volte sembrava un uomo, alle volte aveva la faccia d’un angelo».[1] Non è male – come si dice colloquialmente –, ma è certamente frutto di fantasia. Il ritratto storico di Paolo, poi, fondamentalmente fa leva su tre titoli: anzitutto il titolo di «grande convertito» che sulla via di Damasco cadde a terra folgorato dal Cristo, e poi il titolo di «principe degli apostoli» dato a Paolo in coppia con Pietro nella festa del 29 giugno, e infine quello di «autore delle grandi lettere» che la domenica si leggono al secondo posto, tra l’Antico Testamento e il Vangelo.
Il ritratto interiore dev’essere, da un lato, più introspettivo e, dall’altro, più problematico e più critico.
1. Un uomo segnato da esperienze contrastanti
Il ritratto storico di Paolo insiste giustamente sulla grandezza dell’apostolo, e di essa deve parlare anche il ritratto interiore perché nelle sue lettere Paolo stesso è consapevole delle grandi cose che Dio va compiendo attraverso di lui. Scrivendo ai corinzi, per esempio, non ha paura di affermare: «Io ho lavorato più di tutti gli apostoli» (1Cor 15,10). Anche se subito aggiunge: «Non io però, ma la grazia di Dio in me», è evidente che già intorno all’anno 65 d.C. Paolo sa di avere fatto un grande, impareggiabile lavoro apostolico. In effetti, mandato dalla Chiesa di Antiochia di Siria, insieme con Barnaba ha già attraversato longitudinalmente tutta l’isola di Cipro da Salamina a Pafo, e si è poi inoltrato nell’altopiano della penisola anatolica fondando Chiese ad Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe. Di iniziativa propria ha poi percorso di nuovo l’Anatolia in tutte le direzioni ed è passato in Macedonia piantando la fede a Filippi, Tessalonica e Berea, ed è sceso ad Atene, Corinto e Cencre, in Acaia. Mentre scrive è a Efeso e attraverso i suoi discepoli e collaboratori il vangelo sta raggiungendo, per esempio, Colosse, Laodicea e Gerapoli: 200 chilometri nell’entroterra. Nessun altro apostolo, neanche Pietro o Giovanni, stava facendo altrettanto.
Il primo a meravigliarsi di questa messe apostolica così abbondante è Paolo stesso. La sua meraviglia viene dal fatto che ogni giorno, insieme all’esperienza di un sorprendente successo del vangelo, egli fa anche quella contrastante della propria debolezza.
2. Il superamento del contrasto
Paolo sa bene che in nessun ambiente è facile proporre una nuova fede. Tanto meno la fede in un condannato alla morte e alla vergognosa morte di croce sulla quale morivano schiavi, traditori dello stato e fuorilegge. E sa che ci vogliono mesi e anni per mettere in piedi una comunità, e che è difficile ottenere l’adesione alla fede e la perseveranza di chi è vissuto tutta una vita nel politeismo, nel lassismo etico e anzitutto in quello sessuale. Non di questo Paolo si meraviglia, ma del fatto che l’adesione delle genti al vangelo debba essere pagata con l’amara moneta dell’umiliazione e della sconfitta personale dell’apostolo.
Paolo fa allora l’elenco dei pericoli fisici che continuamente corre, delle fatiche e dei travagli, dell’ostilità da parte di giudei, pagani e falsi fratelli cristiani, dell’accanimento giudiziario contro di lui di sinagoghe e tribunali, e delle sanzioni corporali decretate ed eseguite nei suoi confronti (2Cor 11,23-27). Ma soprattutto poi dice di sentirsi trattato come un demente o come un condannato a morte, e di essere ogni giorno esposto alla fame, alla sete o alla nudità, insultato, schiaffeggiato, perseguitato, calunniato, ridotto a spazzatura e a oggetto di derisione per il mondo intero (1Cor 4,9-13). In una confessione che s’accende e si spegne improvvisa come un lampo, Paolo dice di sé: «Battaglie fuori, paure dentro» (2Cor 7,5). E se è comprensibile che nella sua attività apostolica Paolo si trovasse a battagliare, ci aspetteremmo che il suo animo fosse nella più profonda serenità. Era invece attraversato da paure, al plurale! Da mille paure.
Più oltre egli fa una confessione ancora più inquietante. Dice che gli è stata messa una spina nella carne, e che addirittura per ben tre volte ha chiesto di essere liberato e sollevato da quel tormento. Non sappiamo di che cosa si trattasse: forse di una qualche malattia o forse dell’ostacolo continuo che gli veniva dai giudei o dai falsi fratelli cristiani (che subentrando a lui nelle sue comunità devastavano il suo lavoro). In ogni caso, la grazia non gli è stata concessa, ed egli ha dovuto tenersi il bruciore ininterrotto di quella ferita. «Ti basta la mia grazia», gli è stato risposto (2Cor 12,7-9).
In tutto questo travaglio Paolo si sente come salvato all’ultimo istante o all’ultimo centimetro, da una potenza misteriosa che egli non nomina e che è evidentemente quella di Dio: «In ogni cosa siamo messi sotto pressione ma non schiacciati, ridotti sempre a vicoli ciechi ma non senza che poi si apra una via d’uscita, perseguitati ma non mai derelitti, buttati a terra ma senza mai essere fatti perire» (2Cor 4,7-9). Paolo supera questo stridente contrasto tra successo apostolico e continua sconfitta personale nella convinzione che il primo non può venire senza la seconda. Paolo dice, per esempio, ai corinzi che la vita è generata in loro dal suo continuo morire. La soluzione è dunque nella dialettica pasquale tra morte e vita. Per questo Paolo può parlare di «tesoro» (il vangelo e l’incarico apostolico) «in vasi di creta» (la tartassata e sofferente umanità dell’apostolo) (2Cor 4,7.12).
3. La rivelazione di Damasco e il viaggio interiore
Tutti dicono che per Paolo ogni inizio fu a Damasco, e giustamente. Con minore esattezza si dice che a Damasco Paolo fu convertito. Se proprio si vuol parlare di conversione, infatti, bisogna precisare che non si convertì da una vita di peccato perché in Fil 3,6 egli stesso dice di essere irreprensibile nell’osservanza della legge. Né si convertì da una religione ad un’altra. Al contrario, egli sentiva che a Damasco la sua fede giudaica era giunta alla meta raggiungendo il Messia delle Scritture e delle profezie. Si può tutt’al più dire che si era convertito dalla legge mosaica al Cristo. Sulla via di Damasco, infatti, Dio gli rivelò il suo Figlio (Gal 1,16) e in lui l’èschaton, il mondo nuovo e ultimo che sostituirà quello attuale. La sublime conoscenza del Cristo e della potenza della sua risurrezione ha in tal modo rivoluzionato la vita di Paolo, azzerando in lui ogni altro motivo di vanto così che dopo Damasco egli considera perdita e sterco i privilegi del giudaismo e ogni cosa (Fil 3,7-8).
Per capire l’impatto di Damasco sulla psicologia di Paolo il paragone meno inadatto è quello dell’innamoramento il quale fa passare da tutto un giro di pensieri, interessi e affetti, alla ricerca totalizzante della sola persona amata, divenuta d’improvviso centro della propria esistenza. Ma la rivelazione di Damasco non riguarda il solo Paolo. Il suo incontro con il Risorto comporta, infatti, almeno due affermazioni inaudite per l’intera umanità. La prima: «Qualcuno – il Cristo – ha vinto la morte per sé e per tutti». La seconda: «Questo mondo è oramai superato perché ha avuto inizio la nuova creazione, e il Cristo ne è la prima pietra, la pietra fondante». Poiché ogni essere umano ha il diritto di sentirsi annunciare queste due notizie di rilevanza assoluta per l’antropologia e per la cosmologia, oramai a Paolo sarà impossibile tacere: «L’annuncio evangelico è per me una necessità. Guai a me se non evangelizzassi!» (1Cor 9,16). Selezionato fin dal seno di sua madre come il profeta Geremia e come il Servo di Adonai (Gal 1,15; cf. Ger 1,5; Is 49,1), a differenza di loro egli è profeta e apostolo dei tempi escatologici e della rivelazione definitiva. Per questo si sente debitore del vangelo a giudei e non giudei, a greci e barbari (1Cor 9,19-23; Rm 1,14), anche se poi concorderà con Giacomo e Pietro una suddivisione del campo apostolico, lasciando ad essi il mondo della circoncisione e facendosi volentieri carico del mondo della nongcirconcisione (Gal 2,7-8).
È così che da Damasco cominciò l’andirivieni di Paolo sulle rotte marine e sulle vie di terraferma del vasto impero romano. Ma il suo viaggio fu anzitutto un viaggio interiore. Egli seppe uscire dai privilegi del giudaismo di cui andava fiero e dai diritti che aveva come apostolo, per farsi tutto a tutti. Sua patria non furono più né Tarso né Gerusalemme, ma l’intero mondo dei popoli.
4. Viaggio interiore nella mezzaluna mediterranea
Dopo Damasco Paolo si mosse in direzione dell’Arabia (Gal 1,17). C’è chi pensa che là abbia cercato una pausa di riflessione, ma i ritiri spirituali si inseriscono con difficoltà nel ritratto interiore di Paolo. Egli era bensì uomo di preghiera, come si vedrà, ma lo era nel mezzo del tumulto apostolico, non nelle oasi dello spirito. Se dunque andò in Arabia, nel regno dei Nabatei, vi andò con ogni probabilità come apostolo. Poiché si faceva sempre guidare dalle Scritture, cominciò di lì forse perché le Scritture dicevano che la luce di Gerusalemme avrebbe brillato per i cammelli di Madian e di Efa, per gli abitanti di Saba e per le regioni dei Nabatei (Is 60,6-7), prima che per le navi di Tarsis (vv. 8-9), e cioè prima che per l’area mediterranea.[2]
Da 2Cor 11,32 si apprende che Areta, etnarca dei Nabatei, cercava di mettere le mani su Paolo: fu probabilmente per questo che egli dovette lasciare l’Arabia. Trovando sbarrata la via dell’Oriente, Paolo si volse allora verso l’Occidente, muovendosi «a cerchio da Gerusalemme all’Illirico», l’Albania attuale, come egli dice in Rm 15,19. Poi, non trovando più spazio apostolico in quelle regioni, mira oramai alla Spagna (Rm 15,24.28). Pensa, dunque, di allungare il suo cerchio apostolico occidentale per percorrere l’intera mezzaluna mediterranea. In tal modo il suo viaggio spirituale si amplia, perché dovrà imparare il latino e farsi condizionare da una visione del mondo molto diversa dalla sua. In quel tempo la Spagna dava a Roma personaggi come Seneca, Lucano e Marziale. Almeno in potenza, anch’essi erano meta del suo viaggio interiore.
Non è fuori luogo, poi, chiedersi quali regioni, dopo la Spagna, avrebbero potuto entrare nella sua agenda apostolica. Infatti, in Spagna non si sarebbe fermato come non si era fermato a Corinto o a Efeso dove pure aveva trascorso 18 mesi e, rispettivamente, 2 anni (At 18,11; 19,10). Non è impossibile che avesse nei suoi progetti un ritorno a Gerusalemme lungo la costa africana, le cui numerose colonie giudaiche rendevano agevole il primo approccio apostolico.[3] Scenari missionari così vasti dicono com’era vasto il suo orizzonte interiore.
5. La preghiera incessante
La preghiera è componente fondamentale di ogni ritratto interiore, e Paolo era un uomo di preghiera, lui che invitò i Tessalonicesi a pregare «incessantemente» (1Ts 5,17). Si è già detto, per esempio, che per tre volte chiese di essere liberato dalla spina nella carne e che, evidentemente nella preghiera, accettò poi di tenersi quella ininterrotta sofferenza. La preghiera è per lui «una lotta presso Dio» (Rm 15,30), una lotta con l’uomo vecchio che ognuno porta in sé, oltre che con Satana e con gli ostacoli da lui opposti all’annuncio evangelico (1Tes 2,18). Lasciano intravedere come egli pregava anche le formule che egli tramanda. L’esclamazione «Abba, Padre» dice come egli facesse suoi lo spirito di figliolanza e la sottomissione alla volontà di Dio, che erano stati di Gesù (Gal 4,6; Rm 8,15; cf. Mc 14,36). Il «credere nel cuore e dire con le labbra: “Gesù è Signore”» di Rm 10,10 rivela il cristocentrismo della sua vita e della preghiera. Il «Marana tha – Vieni Signore!» di 1Cor 16,22 dice come la sua preghiera fosse nutrita di ardente speranza. Le molte citazioni che egli trae dai Salmi dicono poi che le preghiere d’Israele, con tutta la varietà dei loro temi, alimentavano le sue suppliche, le sue lodi, le sue riflessioni sulla storia, le sue invettive e imprecazioni.
Il più delle volte la preghiera di Paolo è per le Chiese cui scrive: aprendo le lettere egli invoca su di esse grazia e pace, e poi benedice o ringrazia Dio a motivo dei frutti che Dio in esse suscita, o chiede che si approfondisca la loro conoscenza del mistero del Cristo, o prega per la loro perseveranza nelle difficoltà. Altre volte chiede che si preghi per lui. Lo fa, per esempio, quando, sul punto di partire per Gerusalemme, ha due timori: che i giudei arrestino definitivamente la sua corsa apostolica e che la Chiesa di Gerusalemme non accetti la colletta fatta in Macedonia e Acaia (Rm 15,30-31). E questo rivela che, come la sua vita, così anche la sua preghiera era abitata e dominata dalla missione.
6. Riserve giustificate e riserve ingiuste
Paolo ha nemici anche oggi. Qualcuno, che ha cercato di psicanalizzarlo a partire dai suoi scritti, ne fa un disturbato psicologicamente e un misogino, che non trova dentro di sé la capacità di dedicare una sola menzione a sua madre. L’accusa è ingiusta perché della sua famiglia non ricorda né la sorella (cf. invece At 23,16) né il padre, ma ricorda invece la madre proprio mentre rievoca l’evento di Damasco (Gal 1,15). Anzi, in Rm 16,13 chiama «madre mia» la madre di un certo Rufo. È stato poi accusato di antifemminismo e di aver imposto il silenzio alle donne nelle assemblee, mentre egli mette la profezia femminile (ovviamente nelle assemblee) sullo stesso piano di quella maschile (1Cor 11,4-5),[4] lui che scrive: «In Cristo non c’è maschio o femmina» (Gal 3,28), e che si circonda di collaboratrici come Prisca, Febe, Evodia e Sintiche, ecc. Per aver scritto: «Mi sono fatto tutto a tutti pur di conquistare qualcuno», è stato infine accusato di essere un opportunista, che per avere successo è pronto a compromettere la purezza del vangelo. Ma ciò che in quel testo Paolo dice di avere messo a repentaglio non è il vangelo, bensì sé stesso, la propria libertà e i diritti di cui potrebbe avvalersi: «Tutto io faccio per amore del vangelo» (1Cor 9,19-23).
Bisogna, invece, riconoscere che Paolo aveva una dose eccessiva di protagonismo: a Cipro scippò a Barnaba, proprio nella sua terra, la leadership della spedizione apostolica (At 13,5-13). In secondo luogo, lui – l’autore dell’elogio alla carità (1Cor 13) – di essa non sempre è modello ed esempio: egli che schiaffeggia altri annunciatori del vangelo con i termini offensivi di «cani», «cattivi operai», «castrati» (Fil 3,2), «falsi apostoli», «operai fraudolenti mascherati da apostoli di Cristo, ma in realtà ministri di Satana» e, con sarcasmo mordace, «super apostoli» (2Cor 11,13-15).
L’«egomania», la propensione alla violenza verbale, all’epiteto che ferisce, al sarcasmo, alla litigiosità, al vedere nemici dappertutto, ecc., anche tutto questo fa parte del ritratto interiore di Paolo. Senza quella natura un po’ tanto aggressiva, però, Paolo non solo non sarebbe stato il persecutore della Chiesa e del Cristo di cui parlano Gal 1,13 e At 9,6, ma neanche il convertito e l’apostolo di cui parla tutta la storia.
[1] Atti di Paolo 2,3; Asia Minore, 190 d.C. circa.
[2] R. Bauckham, «What if Paul had Travelled East rather than West», in Novum Testamentum 8 (2000) 171-184.
[3] J. Knox, «Rom 15,14-33 and Paul’s Conception of Apostolic Mission», in Journal of Biblical Literature 83 (1964), 1-11; G. Biguzzi, Paolo comunicatore, Paoline, Milano 1999.
[4] Cf. G. Biguzzi, Velo e Silenzio. Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-26, EDB, Bologna 2001.

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